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“QUESTO È IL MIO TESTAMENTO…”

Riflessioni sul Testamento di S. Francesco
ai Cappuccini di Slovenia
6 Giugno 2006

Cari confratelli cappuccini di Slovenia, mi avete chiesto una riflessione sul tema “Essere cappuccino con gioia nella minorità”. Ho pensato di svolgere questo tema meditando con voi sul Testamento del nostro Padre S. Francesco.
Scritto poche settimane prima di morire, il Testamento è considerato lo specchio più fedele della sua anima, il documento più libero da condizionamenti esterni e formali e che meglio rispecchia la sua personalità e il suo messaggio. Il santo dice di esso che è “un ricordo, un’ammonizione, una esortazione e il mio testamento che io frate Francesco poverello faccio a voi, fratelli miei benedetti perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore”. Il Testamento ha avuto sempre un posto privilegiato nella tradizione cappuccina che lo ha considerato come la migliore espressione dello spirito con cui anch’essa intendeva porsi di fronte alla regola di Francesco.
Vorrei cercare di mettere in luce i grandi amori di Francesco, come appaiono dalla lettura del Testamento, sicuro che essi ci aiuteranno a vivere “con gioia la nostra vocazione cappuccina nella luce della minorità”.

1. Amare i lebbrosi
Il Testamento di Francesco comincia con questa nota autobiografica:
“Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo”.
È il racconto della propria conversione. In queste poche righe c’è racchiuso tutto il lungo processo e il lento lavorio della grazia che lo strappò dalla vita spensierata (non dissoluta, come a volte si ripete per il gusto di calcare le tinte) che conduceva nel mondo. Francesco era in questo stato, lanciato verso un futuro di gloria e di festa, quando cominciò a sentire uno strano vuoto. I sogni che prima avevano il potere di catalizzare tutti i suoi pensieri, cominciavano a sbiadire.
In questa situazione cominciano le visite del Signore. Ecco allora il sogno di Foligno in cui vede delle splendide armi e ode la domanda del Signore: “Francesco, chi è meglio servire: il padrone o il servo?” (Il ”servo” era Gualtieri di Brienne al cui seguito egli si era arruolato) . Ecco la prigionia in Perugia con il tempo per riflettere sulla sua vita. Si sta determinando una specie di accostamento progressivo tra la grazia di Dio e la libertà umana che porterà al momento cruciale in cui una creatura decide il suo destino per l’eternità.
Per Francesco questo momento è stato l’incontro con il lebbroso. Se c’era qualcosa di cui egli aveva orrore mortale (lo dice lui stesso) era vedere, anche solo da lontano, i lebbrosi. Stava per scappare, quando è entrata in azione dentro di lui una forza contraria a quella della natura che lo ha indotto a fermarsi, tornare indietro, scendere da cavallo, dargli una elemosina e baciarlo.
Le fonti francescane ci svelano cosa c’è dietro le scarne parole “feci misericordia con loro”. Non si trattò solo di dare un bacio al lebbroso e poi dimenticare il tutto. L’episodio ebbe un seguito. Tra lui e i lebbrosi nacque un rapporto che non si interruppe più per tutta la vita. Egli chiamava i lebbrosi “i fratelli cristiani”. Scrive il Celano:
“Il Santo si reca tra i lebbrosi e vive con essi, per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi in decomposizione e ne cura le piaghe virulente… La vista dei lebbrosi infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria” .
È facile ingannarsi nell’interpretare questo gesto di Francesco riducendolo a un’espressione della sua sensibilità verso i poveri e i sofferenti. Si è affermato a volte che fu la conversione ai poveri che determinò la conversione di Francesco a Dio. Ma l’importanza di quel momento risiede altrove. Francesco, in quel momento, ha vinto se stesso; ha fatto la sua scelta tra sé e Dio, tra salvare la propria vita e perderla. “Fece violenza a se stesso”, nota il Celano, cioè pose il fondamento di ogni sequela di Cristo che è “rinnegare se stessi” (cf. Mc 8,34). Le grandi avventure di santità cominciano tutte con una vittoria su se stessi, ed è in ciò che consiste la prima vera conversione.
Questo non vuol dire che il prossimo (in questo caso, il lebbroso) non ha importanza per se stesso. Al contrario. Dire “no” a se stessi e dire “si” al prossimo sono due facce della stessa medaglia, due risvolti della stessa decisione. La prima è il mezzo, la seconda il fine. Il rinnegamento non è nel cristianesimo fine a se stesso, è sempre la via per aprirsi agli altri e all’Altro per eccellenza. Per andare verso l’altro, bisogna prima uscire da se stesso.
Vediamo ora come questo primo amore di Francesco può essere incarnato nella vita del francescano e cappuccino di oggi. Il lebbroso è stato sempre, dalla Bibbia in poi, il simbolo dell’emarginazione, della sofferenza e della povertà estrema. Non è difficile perciò trasferire l’episodio di Francesco che bacia il lebbroso nel contesto odierno segnato da altre forme di emarginazione, sofferenza e povertà. Francesco ci ricorda che tra gli “amori” del francescano ci deve essere quello per i poveri, i lebbrosi di oggi. Un amore, però, che sia frutto di conversione evangelica, non una scelta polemica o puramente sociologica. Francesco vede nell’andata verso il lebbroso il momento in cui “uscì dal mondo”; la sua non fu una scelta suggerita da motivi mondani, sia pure di compassione e di pietà.
L’amore per i poveri e i sofferenti è dunque parte integrante della vocazione francescana e cappuccina, anche se i modi di tradurlo in pratica sono cambiati. Non tutto potremo fare direttamente, in prima persona, ma c’è almeno una cosa che possiamo fare tutti ed è che i poveri e gli ultimi si sentano a loro agio nella nostra compagnia, che non siano discriminati anche in chiesa. Risuona sempre attuale l’ammonimento di S. Giacomo:
“Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: Tu siediti qui comodamente, e al povero dite: Tu mettiti in piedi lì, oppure: Siediti qui ai piedi del mio sgabello, non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (Gc 2, 1-4).

2. Amore e collaborazione con il clero diocesano
Passiamo al secondo amore di Francesco nel Testamento:
“Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori”.
Questo amore di Francesco per i sacerdoti era ancora più sorprendente nell’epoca in cui egli scriveva. La situazione morale e intellettuale del basso clero era veramente deplorevole. C’era un distacco enorme tra l’alto clero che si muoveva in un mondo di feudatari e il clero ordinario abbandonato a se stesso. Le chiese erano ridotte spesso a granai, il concubinato era diffusissimo. È stato scritto un articolo che descrive la situazione del clero al tempo di Francesco sulla base dei canoni dei concili, dei decreti dei papi .
La critica nei confronti di questo clero era un luogo comune nella letteratura popolare del tempo e a volte avvenivano vere e proprie rivolte della gente che costringevano il prete alla fuga. Francesco ha reagito con l’amore che abbiamo sentito. Non è solo questa parola del Testamento. Il Poverello ha impostato il suo ordine su questo principio che i suoi frati non dovevano essere concorrenti dei parroci, ma servitori. Per questo non volle che avessero delle chiese proprie, se non piccoli oratori per il loro uso personale, ma che prestassero il loro servizio nelle chiese esistenti.
Leggiamo un testo che documenta come Francesco inculcava questo amore per i sacerdoti ai suoi frati e come in questo campo vedeva soprattutto realizzato lo spirito di “minorità”:
“Dissero una volta alcuni frati a Francesco: ‘Padre, non vedi che i vescovi non ci permettono talora di predicare, obbligandoci a rimaner più giorni sfaccendati in certe città, prima che possiamo parlare al popolo? Sarebbe più conveniente che tu ci ottenessi un privilegio dal signor Papa, a vantaggio della salvezza delle anime’. Francesco rispose con tono contrariato: ‘Voi, frati minori, non conoscete la volontà di Dio e non mi permettete di convertire tutto il mondo nel modo voluto da Dio. Infatti, io intendo innanzi tutto convertire i prelati con l’umiltà e il rispetto. E quando essi constateranno la nostra vita santa e la reverenza di cui li circondiamo saranno loro stessi a pregarvi di predicare e convertire il popolo. E attireranno a voi la gente meglio dei privilegi da voi agognati, che vi indurrebbero a insuperbire. Se sarete liberi da ogni tornaconto e persuaderete il popolo a rispettare i diritti delle chiese, i prelati vi chiederanno di ascoltare le confessioni dei loro fedeli. Oltre tutto, di questo non vi dovete preoccupare: quelli che si convertono trovano senza difficoltà dei confessori. Io voglio per me questo privilegio dal Signore: non avere nessun privilegio dagli uomini, fuorché quello di essere rispettoso con tutti e di convertire la gente più con l’esempio che con le parole, conforme all’ideale della Regola” .

3. L’amore per l’Eucaristia
Passiamo al terzo amore di Francesco strettamente legato al precedente, l’amore per l’Eucaristia. È con esso che egli giustifica il suo amore per i sacerdoti. Dice infatti:
“E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri. E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi”.
Per capire questa sua insistenza sul decoro e il rispetto che deve circondare il Santissimo Sacramento, bisogna, anche qui, conoscere la situazione del tempo. Lo studio citato documenta lo stato deplorevole in cui veniva tenuta l’Eucaristia e gli sforzi che papi e concili in quel tempo mettevano in atto per correggere gli abusi più gravi . Il santo stesso, in una sua lettera a tutti i chierici, evoca alcuni di questi abusi:
“ Badiamo, quanti siamo chierici, di evitare il grande peccato e l’ignoranza, che certi hanno riguardo al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo…Tutti quelli, poi, che amministrano sì grandi misteri considerino tra sé, soprattutto chi li amministra senza il dovuto rispetto, quanto siano vili i calici, i corporali, le tovaglie usate per la consacrazione del corpo e del sangue del Signore nostro Gesù Cristo. E da molti il corpo è lasciato in luoghi indegni, è portato per via in modo lacrimevole, è ricevuto senza le dovute disposizioni e amministrato senza riverenza. Anche i nomi e le parole di Lui scritte talvolta sono perfino calpestate poiché l’uomo che non ha lo spirito di Dio non accetta le cose dello spirito di Dio (1Cor 2,14). Non dovremmo essere ripieni, per tutto questo, di zelo dato che lo stesso buon Signore si offre alle nostre mani e noi lo abbiamo a nostra disposizione e ce ne comunichiamo ogni giorno? Ignoriamo forse che dobbiamo venire nelle sue mani? . Orsù, di tutte queste cose, e di altre, subito e con fermezza emendiamoci, e ovunque il santissimo corpo del Signore nostro Gesù Cristo sarà stato senza decoro collocato e lasciato, sia tolto di là e sia posto e custodito in un luogo prezioso” .
In questo, come in tante altre cose, Francesco si è fatto esecutore premuroso della riforma liturgica sancita dal concilio Lateranense IV, specialmente con i canoni 19 e 20 .
Questa insistenza sul decoro esteriore, anche se suggerita da problemi particolari del momento, non è senza importanza per noi francescani di oggi. La gente misura istintivamente la fede di un sacerdote dal modo con cui si comporta in presenza del Santissimo, dalla cura che mette nel tenere l’altare e il tabernacolo (Un fiore, magari uno solo, ma sempre fresco!). Con una genuflessione si può dire alla gente più che con un intero discorso sulla presenza reale…
Ma l’amore e lo zelo di Francesco per l’Eucaristia ha motivazioni più profonde. L’Eucaristia è per lui Cristo presente nel suo “santissimo corpo”. S. Leone Magno diceva che “tutto quello che vi era di visibile nel nostro Signore Gesù Cristo, dopo la sua Ascensione, è passato nei segni sacramentali” . Tutto l’amore tenerissimo che Francesco ha per Gesù Bambino e per Gesù Crocifisso –quello che rappresentano nella tradizione francescana Greccio e La Verna, “la povertà dell’incarnazione e la carità della passione” – tutto si concentra per lui nell’Eucaristia.
Essa non è per lui soltanto un rito, un mistero, una verità, un dogma, un sacramento, sia pure il più sublime; è una persona viva, umile, indifesa; è Dio che ci ha messo il suo corpo tra le mani, come dice un canto eucaristico dei nostri giorni. Ascoltiamo qualche parola di Francesco al riguardo per riscaldarci al suo fuoco:
“Udite, fratelli miei, se la beata Vergine Maria è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo seno; se il Battista beato tremò di gioia e non osò toccate il capo santo del Signore (Cfr Mt 3,13-14); se è venerato il sepolcro, nel quale per qualche tempo Egli giacque; quanto deve essere santo, giusto, degno, colui che Lui non già morituro, ma eternamente vivente e glorioso, Lui, sul quale gli angeli desiderano volgere lo sguardo (1Pt 1,12), accoglie nelle proprie mani, riceve nel cuore e con la bocca, offre agli altri perché lo ricevano? Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti, e siate santi perché egli è santo (Lv 11,44). E come il Signore Iddio onorò voi sopra tutti gli uomini, per questo mistero, cosi voi più di ogni altro uomo amate, riverite, onorate Lui. Gran miseria sarebbe, e miserevole male se, avendo Lui così presente, vi curaste di qualunque altra cosa che fosse nell’universo intero! L’umanità trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo. O ammirabile altezza, o degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane! Guardate, frati, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a Lui vostri cuori (Sal 61,9); umiliatevi anche voi, perché egli vi esalti (1Pt 5,6). Nulla, dunque, di voi, tenete per voi; affinché vi accolga tutti colui che a voi si dà tutto” .
L’ultima frase esprime il nesso che c’è tra l’Eucaristia e la vita del sacerdote e del religioso. Il sacerdote non può accontentarsi di celebrare l’Eucaristia; deve essere eucaristia. La frase pronunciata dal vescovo al momento della nostra ordinazione (io la ricordo in latino) diceva: “Agnoscite quod agitis imitamini quod tractatis” che significa: riconoscete ciò che fate, imitate (nella vita) ciò che fate (sull’altare). Un grande maestro di spirito francese, il P. Olivaint, diceva: “Le matin, moi prêtre, lui victime; le long du jour lui prêtre, moi victime”, “Al mattino, io sacerdote lui (Gesù) vittima; lungo la giornata, lui (Gesù) sacerdote, io vittima”.
Molte cose sono cambiate nel mio modo di celebrare l’Eucaristia il giorno che ho cominciato a dire le parole della consacrazione non soltanto “in persona Christi”, a nome di Cristo, ma anche in persona propria, in prima persona. “Prendete, mangiate, fratelli e sorelle: questo è il mio corpo –il mio tempo, le mie energie, risorse, capacità – offerto in sacrificio per voi…Prendete, bevete, questo è il mio sangue – le mie sofferenze, insuccessi, malattie – versato per voi”. Prese sul serio, queste parole possono trasformare tutta la giornata in una eucaristia.
Quando Gesù diceva: “Fate questo in memoria di me”, forse non intendeva dire soltanto: ripetete esattamente gesti che avete visto fare a me, ma qualcosa di più essenziale: fate la sostanza di ciò che ho fatto io. Io mi sono offerto al Padre per voi, anche voi offritevi con me al Padre per i fratelli. Così in ogni caso Paolo intende le parole di Cristo quando dice: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rom 12,1).
Si dice: “L’Eucaristia fa la Chiesa”; è vero, ma ora sappiamo come l’Eucaristia fa la Chiesa: l’Eucaristia fa la Chiesa, facendo della Chiesa una eucaristia!

4. La parola di Dio
Inseparabile dall’amore per l’Eucaristia è, in Francesco, l’amore per la parola di Dio. Dice a questo proposito nel Testamento:
“E dovunque troverò i nomi santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in un luogo decoroso. E dobbiamo onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la divina parola, così come coloro che ci danno lo spirito e la vita”.
In una lettera Francesco parla delle “fragranti parole del Signore” , paragona cioè implicitamente le parole di Dio a dei pani profumati. Il bel testo sull’Eucaristia che abbiamo citato sopra dalla lettera a tutto l’ordine, è seguito immediatamente da un brano altrettanto vibrante sulla parola di Dio:
“Ammonisco tutti i miei frati e in Cristo li conforto perché, ovunque troveranno le divine parole scritte, come possono, le venerino e, per quanto spetti ad essi, se non sono ben custodite o giacciono sconvenientemente, disperse in qualche luogo, le raccolgano e le custodiscano onorando nella sua parola il Signore che ha parlato. Molte cose, infatti, sono santificate mediante le parole di Dio (1Tm 4,5), e in virtù delle parole di Cristo si celebra il sacramento dell’altare” .
Le parole divine, come i divini misteri, sono per Francesco aspetti della presenza viva di Cristo. Di qui quel senso di concretezza e cura anche materiale di cui vuole che siano circondate. La parola di Dio è per lui una realtà quasi materiale e palpabile. Come per la Bibbia, dove la parola è qualcosa che “cade” su Israele, che “viene” o “si posa” sul profeta, che è attiva e operativa come la pioggia, la rugiada, il fuoco e il martello (cf. Ger 23, 29).
Francesco ha sperimentato questo potere della parola nella sua vita e lo ricorda proprio a questo punto del suo Testamento:
“E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo . Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere, e il signor Papa me lo confermò”.
Allude all’episodio ben noto della triplice apertura a caso del vangelo da cui ebbe la rivelazione di quello che doveva fare . Si possono avere delle riserve su questo modo di utilizzare la Scrittura aprendola a caso, ma la storia della Chiesa è piena di episodi del genere che hanno segnato l’inizio di vocazioni e realtà nuove. Fu così che nacque la vocazione eremitica di Antonio, che si concretizzò la conversione di Agostino, che Teresa di Lisieux scoprì la sua vocazione nella Chiesa leggendo 1 Corinti 12-13.
Non sempre, naturalmente, è necessario e consigliabile ricorrere a questo metodo. A volte più che aprire a caso la Scrittura, si tratta di ascoltarla a caso; di stare, cioè, con le orecchie sempre ben aperte, in modo da riconoscere una parola di Dio per noi nel momento in cui essa viene proclamata, per esempio, nella liturgia. Più che alla triplice apertura a caso dei vangeli, Celano fa risalire la scelta di vita di Francesco all’ascolto del vangelo dell’invio degli apostoli, avvenuto durante una S. Messa .
“Egli, conclude il Celano, non era mai stato un ascoltatore sordo del Vangelo, ma, affidando ad una encomiabile memoria tutto quello che ascoltava, cercava con ogni diligenza di eseguirlo alla lettera” . Si tratta dunque di stare con gli orecchi ben aperti per raccogliere “al volo” la parola destinata tra tutte quelle che ascoltiamo o leggiamo.
Non posso chiudere queste riflessioni sull’amore di Francesco per la parola di Dio senza esprimere una preoccupazione. L’ordine cappuccino si è distinto nella storia soprattutto per l’efficacia della predicazione e il fervore dei suoi predicatori. È stata la ragione princiaple della sua “popolarità”. Sono sicuro che così è stato anche in Slovenia. Ma oggi dove vanno le forze più vive e più valide del nostro ordine? A me sembra di scorgere in questo campo un grave inconveniente che riguarda l’intera Chiesa cattolica, non soltanto il nostro ordine. Alla predicazione vengono destinati gli elementi che rimangono dopo la scelta per gli studi accademici, per il governo, per la diplomazia, per la formazione dei giovani. È diventata un’attività “secondaria”, non primaria.
H. De Lubac ha scritto: «Il “ministerium praedicationis” non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. È, al contrario, l’insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta. Questo era vero della prima predicazione cristiana, quella degli apostoli, ed è vero ugualmente della predicazione di coloro che sono ad essi succeduti nella Chiesa: i Padri, i Dottori e i nostri Pastori nell’ora presente». H.U. von Balthasar, a sua volta, parla della «missione della predicazione nella Chiesa, alla quale è subordinata la stessa missione teologica».
Queste affermazioni mi hanno colpito perché sembra che il rapporto di fatto esistente tra queste due attività, almeno nell’opinione della maggioranza della gente e degli stessi sacerdoti, sia proprio quello opposto, secondo il quale la predicazione non sarebbe che la volgarizzazione di un insegnamento più tecnico e astratto che gli è anteriore e superiore: la teologia.
La fede dipende dall’annuncio: fides ex auditu (Rm 10, 17). La Parola è il «luogo» dell’incontro decisivo tra Dio e l’uomo. La liturgia è un elemento essenziale nella vita della Chiesa, ma viene in seguito. Una bella liturgia può edificare, far crescere chi ha già la fede, ma difficilmente è il momento in cui un non-credente (supposto che vi partecipi) «si sente trafiggere il cuore» come avvenne invece per quelli che ascoltarono parlare Pietro il giorno di Pentecoste (cf At 2, 37).
Da qui dipende se l’ordine Cappuccino parteciperà da protagonista allo sforzo di rievangelizzazione dell’Europa, o se invece rimarrà sostanzialmente estraneo ad esso.

5. Madonna Povertà
E raccogliamo dal Testamento l’ultimo (o il primo?) amore di Francesco, quello per Madonna Povertà.
“Si guardino i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non siano come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini (cfr 1Pt 2,11). Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, ovunque sono, non osino chiedere lettera alcuna nella curia romana direttamente o per mezzo di interposta persona, né per le chiese, né per altri luoghi, né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi, ma, dove non saranno ricevuti, fuggano in altra terra a far penitenza con la benedizione di Dio”.
San Bonaventura ha sintetizzato in un capitolo celebre della sua Leggenda maggiore l’amore di Francesco per la povertà mettendone in luce anche l’aspetto più interiore e spirituale, la povertà di prestigio, di amore di sé, in una parola la minorità .
Un aspetto, forse il più profondo e originale, della povertà di Francesco è la povertà di potere e di dominio. Di essa fa parte il divieto, nel testo del Testamento, di ricorrere ai privilegi ecclesiastici. Egli ha visto chiaro dove era il male oscuro che procurava tanti nemici e tanta opposizione alla Chiesa del suo tempo. Gesù aveva sostituito la categoria del servizio a quella del dominio (cf. Mc 10, 42-45). A poco a poco però si era tornati al modo mondano di concepire l’autorità. Francesco è martellante su questo punto: servi di tutti”, “vostro servo”. I superiori, nel suo ordine, non si chiameranno abati, priori, prelati, ma ministri, cioè servi. I superiori sono “ministri e servi degli altri frati” .
Il mondo ha cambiato senso alla parola ministro e ministero. Si parla di Ministero delle finanze, del tesoro, degli interni, degli esteri, espressioni che non evocano precisamente l’idea di un umile servizio…Ma nel linguaggio di Gesú e di Francesco esso ha ben altro significato.
S. Paolo ha visto bene il pericolo che insidia il ministero apostolico: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” ( 2 Cor 1, 24). Pietro, nella stessa linea, esorta i presbiteri a “non spradroneggiare sulle persone loro affidate, ma a farsi modelli del gregge” (cf. 1 Pt 5,3).
Come si spiega il fenomeno del drammatico voltare le spalle alla Chiesa in alcuni dei paesi tradizionalmente più “cattolici” d’Europa? L’ho chiesto una volta a un sacerdote in Olanda e la sua risposta mi ha fatto molto pensare. Il clero, diceva, qui era tutto; decideva tutto, perfino nell’ambito del matrimonio e della famiglia. Quando i tempi e l’evoluzione cultura ha fatto cadere questa dipendenza, si è passati all’eccesso opposto di un totale rifiuto. Credo che questo spieghi, almeno in parte, la crisi in cui sono caduti, uno dopo l’altro, paesi come l’Olanda, l’Irlanda e i Paesi Baschi che erano una volta la roccaforte del cattolicesimo.
Noi francescani e in particolare noi cappuccini (non so se meritatamente o immeritatamente) siamo stati risparmiati da questa ondata di ostilità verso il clero; siamo visti come appartenenti alla base più che ai vertici, vicini al popolo. Dobbiamo utilizzare questa posizione per attuare una riconciliazione tra la gerarchia e il popolo, come fece Francesco al suo tempo.
Il Testamento termina con una larga benedizione che sono sicuro Francesco estende ora a tutti noi che abbiamo accolto le sue parole e condiviso i suoi “amori”:
“E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’altissimo Padre, e in terra sia ripieno della benedizione del diletto Figlio suo col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i santi. Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen.”