Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

I due saranno una carne sola - XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Genesi 2, 18-24; Ebrei 2, 9-11; Marco 10, 2-16

Il tema di questa Domenica è il matrimonio. La prima lettura comincia con le ben note parole:
“Il Signore Dio disse: Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui”.
(Oggi aggiungeremmo volentieri una frase parallela a questa: “Non è bene che la donna sia sola: voglio farle un aiuto che sia simile a lei”). Ai nostri giorni il male del matrimonio è la separazione e il divorzio, al tempo di Gesù era il ripudio. In certo senso, questo era un male peggiore, perché implicava anche una ingiustizia nei confronti della donna. L’uomo infatti aveva il diritto di ripudiare la propria moglie, ma la moglie non aveva il diritto di ripudiare il proprio marito.
Due opinioni si scontravano, a riguardo del ripudio, nel giudaismo. Secondo una, era lecito ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo, ad arbitrio dunque del marito; secondo l’altra, invece occorreva un motivo grave, contemplato dalla Legge. Un giorno sottoposero questa questione a Gesù, aspettandosi che egli prendesse posizione in favore o dell’una o dell’altra tesi. Ma ricevettero una risposta che non si aspettavano:
“Per la durezza del vostro cuore egli (Mosè) scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto”.
In altre parole: per nessun motivo è lecito ripudiare la propria moglie, o abbandonare il proprio marito. Eccomi dunque costretto a parlare, ancora una volta, del matrimonio. Qualcuno ha detto scherzosamente: “Chissà quante risate si fanno i preti dopo aver celebrato un matrimonio, pensando in che pasticcio i due si sono messi”. Non è vero. Con quel po’ di cuore paterno che il sacerdozio sviluppa in noi, guardando i due sposi che si allontanano dall’altare tra i flash dei fotografi e il lancio del riso, sentiamo piuttosto trepidazione e tenerezza per loro, perché sappiamo quale non facile cammino li attende, e spesso ci viene spontaneo tracciare furtivamente su di loro un ultimo segno di benedizione. Con questo spirito, vorrei rivolgermi agli sposi. Ai credenti e ai non credenti, visto che i problemi sono, per buona parte, identici per gli uni e per gli altri.
Quello che abbiamo ascoltato è il testo classico di condanna del divorzio. Ma io non voglio lanciarmi in un’ennesima condanna del divorzio. I credenti sanno qual è la posizione del Vangelo e della Chiesa, a questo riguardo. Piuttosto vorrei mostrare come la parola di Gesù non si limita a condannare il divorzio, ma indica anche come fare per non aver bisogno di ricorrere ad esso; per non giungere al punto in cui, se non il divorzio, almeno la separazione diventa inevitabile. Il Vangelo fa opera di prevenzione, più che di repressione.
Non occorre che insista, in questa sede, sulla crisi allarmante che attraversa l’istituto del matrimonio nella nostra società. Essa è sotto gli occhi di tutti. Matrimoni che entrano in crisi dopo pochi mesi di vita; parole come: “sono stufo di questa vita”, “me ne vado”, “se è così, ognuno per conto suo!”, ormai vengono pronunciate tra i coniugi alla prima difficoltà. (Detto per inciso: io credo che un coniuge cristiano dovrebbe accusarsi in confessione del semplice fatto di aver pronunciato una di queste parole, perché il solo dirle è un’offesa all’unità e costituisce un pericoloso precedente psicologico).
Il matrimonio risente in ciò della mentalità corrente dell’“usa e getta”. Se un apparecchio o uno strumento subisce qualche danno o una piccola ammaccatura, non si pensa a ripararlo (sono scomparsi ormai quelli che facevano questi mestieri), ma subito a sostituirlo. Si vuole la cosa nuova di zecca. Applicata al matrimonio, questa mentalità risulta del tutto errata e micidiale. Il matrimonio non è come un vaso di porcellana che si può solo sciupare con il passare del tempo, mai migliorare, e una volta che ha avuto un piccolo screzio, anche se incollato, perde metà del suo pregio. Esso appartiene all’ambito della vita e ne segue la legge. Come si mantiene e si sviluppa la vita? Forse mantenendola staticamente sotto una campana di vetro, al riparo da urti, cambiamenti e agenti atmosferici? La vita è fatta di continue perdite che l’organismo impara a riparare quotidianamente, di attacchi di agenti e virus di ogni tipo che l’organismo intelligentemente prevede e sconfigge, facendo entrare in azione i propri anticorpi. Almeno finché esso è sano. Il matrimonio dovrebbe essere come il vino che, invecchiando, migliora, non peggiora.
Faccio un altro esempio, questa volta desunto non dalla vita fisica, ma da quella spirituale. Il processo che porta a un matrimonio riuscito è dello stesso tipo di quello che porta alla santità. Forse che la santità si acquista non facendo niente, non compromettendosi, non sporcandosi le mani, nascendo già santi e mantenendosi tali per tutta la vita, come certe statuine di marmo o di plastica? No, è fatta di cadute, da cui ci si rialza, a volte di traviamenti profondi, peccati anche terribili, dai quali però un giorno ci si è ripresi, per cominciare una nuova vita. La santità è frutto di continua conversione e di crescita.
In questo cammino, i santi attraversano quella che si chiama “la notte oscura dei sensi”, in cui non provano più alcun sentimento, nessuno slancio; sono aridi, vuoti, fanno tutto a forza di volontà e con fatica. Dopo questa, c’è la “notte oscura dello spirito” che è ancora peggiore, perché in essa non entra in crisi solo il sentimento, ma anche l’intelligenza e la volontà. Si arriva a dubitare se si è sulla strada giusta, se per caso non si è sbagliato tutto; buio completo. Tutto finito? No, è il preludio a una luce più grande, un amore più puro. La perfezione è alla fine, non al principio. Tutto questo non era che purificazione. Dopo che hanno attraversato queste crisi tremende, i santi si rendono conto di quanto il loro amore iniziale fosse impuro, quanta ricerca di sé ci fosse ancora in ciò che facevano. Amavano Dio anche per le consolazioni che ne ricevevano, non solo per se stesso, gratuitamente. Anche il cammino con Dio, infatti, come quello con la persona amata nel matrimonio, conosce le cosiddette “grazie iniziali”: consolazioni, dolcezze, attrattive, per cui sembra di toccare il cielo con un dito, che però non durano per sempre.
Sono sicuro che molti sposi avranno riconosciuto in ciò la propria esperienza, almeno quelli che hanno avuto il coraggio di non arrendersi anzitempo. Anch’essi ora si rendono conto di quanto lo slancio, l’entusiasmo dei primi giorni fosse poca cosa, rispetto all’amore vero, genuino, che è maturato attraverso tutte queste vicende. Se prima amavano il marito o la moglie per la soddisfazione che ciò procurava loro, oggi forse lo amano, o la amano, un po’ di più per lui, o per lei; cioè amano l’altro, non se stessi.
Che cosa suggerire ai coniugi che vorrebbero almeno tentare questa strada ardua, ma piena di promesse? Una cosa semplicissima: riscoprire un’arte dimenticata in cui eccellevano le nostre nonne e mamme: il rammendo! Alla mentalità dell’“usa e getta” bisogna sostituire quella dell’“usa e rammenda”. Le più brave tra le nostre nonne erano capaci del cosiddetto rammendo invisibile, cioè eseguito così bene che la cosa sembrava nuova, senza nessuna traccia dello strappo.
Ormai quasi nessuno pratica più il rammendo; sembra che sia disonorevole portare calze, scarpe, o una maglia rammendata. Ma se non si pratica più sui vestiti, bisogna praticare quest’arte del rammendo sul matrimonio. Rammendare gli strappi. E rammendarli subito. Chi praticava il rammendo, sapeva bene, che il segreto è farlo subito, perché, con il passare del tempo, la smagliatura delle calze, o uno strappo sul vestito si allarga e allora non c’è più davvero niente da fare. Gli antichi hanno coniato un detto a questo riguardo: “Principiis obsta…: Intervieni ai primi sintomi: tardi si appresta la medicina, se il male, nell’attesa, ha preso piede”. Un raffreddore, se curato in tempo, si può fermare in un giorno con un’aspirina; dopo che è scoppiato, non basta una settimana.
Non c’è bisogno di spiegare cosa significa rammendare gli strappi nella vita di coppia. San Paolo dava ottimi consigli a questo riguardo: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date occasioni al diavolo”, “sopportatevi a vicenda, perdonandovi se qualcuno abbia di che lamentarsi dell’altro”, “ portate i pesi gli uni degli altri” (cfr. Efesini 4, 26-27; Colossesi 3, 13; Galati 6, 2).
Non bisogna permettere che il nemico inserisca un cuneo tra sé e l’altro. A volte, il cuneo viene dall’esterno. È un sentimento non chiaro verso un’altra donna o un altro uomo, di cui si intuisce la pericolosità. Qui soprattutto applicare la massima: Principiis obsta: intervieni subito alle prime avvisaglie; tronca, tronca! Presto sarà troppo tardi. La passione avrà preso piede, non la dominerai più e ti trascinerà, a tuo malgrado, dove vuole essa, spesso nel disonore, oltre che al divorzio; in ogni caso, a una vita di menzogna di fronte a te stesso e agli altri. Questi consigli, noi sacerdoti non li dobbiamo dare solo agli sposati, ma anche a noi stessi. Questo problema esiste infatti, anche per i celibi che, in questo campo, sono soggetti alla fragilità di tutti, come ogni tanto, purtroppo, ci ricorda la cronaca.
La cosa importante da capire è che in questo processo di strappi e di ricuciture, di crisi e di superamenti, il matrimonio, non si sciupa, ma cresce, si affina, migliora. Appunto, come la vita e come la santità. Il segreto è saper ricominciare sempre da capo. Come la vita ricomincia ogni mattina e ad ogni istante. Sapere che nonostante tutto, proprio tutto, è possibile, volendolo insieme tutti e due, ripartire da capo, azzerare il passato, cominciare una storia nuova.
Gesù fece il suo primo miracolo, a Cana di Galilea, per salvare la felicità dei due sposi. Cambiò l’acqua in vino, e tutti alla fine si trovarono d’accordo nel dire che il vino servito per ultimo era stato il migliore. Credo che Gesù sia pronto anche oggi, se lo si invita alle proprie nozze, a operare questo miracolo e far sì che il vino ultimo – l’amore e l’unità degli anni della maturità e della vecchiaia – sia migliore di quello della prima ora.