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Chi non è contro di noi è per noi - XXVI Domenica del tempo ordinario

Numeri 11, 25-29, Giacomo 5, 1-6; Marco 9, 37-42.44.46-47

Un modo utile per introdurci alla comprensione del Vangelo di oggi è di partire dall’episodio narrato nella prima lettura. Verso la fine della sua vita, Mosè designa 70 anziani che lo affianchino nella guida del popolo; subito lo Spirito Santo scende visibilmente su di essi ed essi si mettono a profetizzare. Intanto però fuori di lì, lo stesso Spirito Santo venne su due persone estranee, non designate da Mosè. Il giovane aiutante Giosuè disse a Mosè: “Impediscili!”, ma egli rispose: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”.
Adesso passiamo al Vangelo. Troviamo una scena, per certi versi, simile. Uno degli apostoli, Giovanni, ha visto qualcuno che scacciava i demoni nel nome di Gesù, senza essere della loro cerchia e glielo ha proibito. Quindi va a riferire la cosa a Gesù stesso. Ma egli risponde:

“Non glielo proibite…Chi non è contro di noi, è per noi”.

Il brano evangelico continua parlando anche di altre cose, ma noi ci fermiamo qui perché si tratta di uno spunto di grande attualità e interesse. Che pensare di quelli di fuori, che fanno qualcosa di buono e presentano delle manifestazioni dello Spirito, senza tuttavia credere in Cristo e aderire alla Chiesa?
Alcuni cristiani tradizionali sono sconcertati dalle aperture recenti su questo tema e obbiettano (parole raccolte dalla loro viva voce): “Se anche gli atei possono aspirare alla salvezza eterna, purché vivano secondo una coscienza retta; se è vero, come dicono certi teologi, che c’è speranza di salvezza per chiunque abbia una fede, mussulmano od ebreo che sia, mi chiedo perché Gesù ha detto: ‘Chi crede in me sarà salvato’? e perché tanti sforzi per riunificare le Chiese cristiane, dal momento che, se non credi in Dio e non hai la fede ma fili diritto, ti salverai ugualmente?”.
È l’occasione per gettare un po’ di luce su questo problema delicato. Diciamo subito che quella proposta non è la dottrina solo di qualche teologo isolato, ma del concilio Vaticano II. Il concilio ha detto che “lo Spirito Santo, in un modo noto solo a Dio, offre a ogni uomo la possibilità di venire in contatto con il mistero pasquale di Cristo” e quindi di essere salvato. Non si tratta, del resto, di una dottrina nuova inventata nel concilio. Già nella Scrittura leggiamo affermazioni significative in questo senso: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità” (1 Timoteo 2, 4), e ancora: “Dio è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto dei credenti” (1 Timoteo 4,10). (Soprattutto, non, quindi, esclusivamente dei credenti!).
La teologia ha sempre ammesso la possibilità, per Dio, di salvare alcune persone per vie straordinarie, al di fuori di quelle ordinarie che sono la fede in Cristo, il battesimo e l’appartenenza alla Chiesa. Questa certezza si è affermata però in epoca moderna, dopo che le scoperte geografiche e le accresciute possibilità di comunicazioni tra i popoli hanno costretto a prendere atto che c’erano infinite persone che senza alcuna loro colpa, non avevano mai udito l’annuncio del Vangelo o lo avevano udito in modo improprio, da conquistatori o colonizzatori senza scrupoli che rendevano assai difficile accettarlo, anche una volta conosciuto.
È cambiata dunque la nostra fede cristiana? No, purché continuiamo a credere due cose: primo, che Gesù è, oggettivamente e di fatto, il Mediatore e il Salvatore unico di tutto il genere umano, e che anche chi non lo conosce, se si salva si salva, grazie a lui, alla sua morte redentrice. Secondo, che anche costoro, pur non appartenendo alla Chiesa visibile, sono oggettivamente “orientati” verso di essa, fanno parte di quella Chiesa più ampia conosciuta solo da Dio.
Bisogna del resto distinguere tra non credente e non credente, tra ateo e ateo. La salvezza non è assicurata a nessuno a buon mercato. A chi, come dice la Scrittura, “per ribellione resiste alla verità e obbedisce all’ingiustizia” (cioè, vive disordinatamente, irridendo ai principi della fede e della morale, cercando solo la propria soddisfazione in questo mondo) non viene promesso nient’altro se non quello che prometteva san Paolo e cioè “sdegno, ira, tribolazione e angoscia, nel giorno della rivelazione del giusto giudizio di Dio”, sia egli “giudeo o greco”, cioè credente o non credente (cfr. Romani 2, 5-9).
Qui si tratta piuttosto di quelle persone che (forse per i motivi che ho detto) non credono in Cristo, ma credono in Dio e lo servono in un’altra religione. Oppure, se non credono nemmeno in Dio, non è per colpa loro, ma è a causa dell’educazione ricevuta, o per l’ambiente in cui vivono e i condizionamenti intellettuali a cui, senza rendersene conto, soggiacciono.
Due cose, nel nostro brano evangelico, Gesù sembra esigere da queste persone ”di fuori”: che non siano “contro” di lui, cioè che non combattano positivamente la fede e i suoi valori, che non si mettano, cioè, volontariamente contro Dio. Secondo, che, se non sono in grado di servire e amare Dio, che servano e amino almeno la sua immagine che è l’uomo, specie il povero. Dice infatti, nel seguito del nostro brano, parlando ancora di quelli di fuori: “Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico che non perderà la sua ricompensa”.
Qui egli suppone che facciano del bene a qualcuno “perché è di Cristo”, ma nella famosa pagina del giudizio finale non c’è neppure questa limitazione. Chi avrà dato da mangiare a un affamato o visitato un infermo, per il semplice fatto che era affamato o era infermo, si sentirà dire: “Vieni benedetto dal Padre mio…L’hai fatto a me”. La fede è importantissima, ma dobbiamo ricordarci che c’è anche la carità. Nell’amore è implicita una forma di fede, perché “Dio è amore” e “chi ama è passato dalla morte alla vita”. Il concilio Vaticano II ha indicato questa categoria speciale di non credenti con l’espressione, divenuta ormai di uso comune, di “uomini di buona volontà”.
Ma, chiarita la dottrina, io credo che ci sia da rettificare anche qualcos’altro e cioè l’atteggiamento interiore, la psicologia di noi credenti. Che contrasto tra l’atteggiamento di Giosuè e quello di Mosè, nella prima lettura, e tra l’atteggiamento di Giovanni e quello di Cristo, nel brano evangelico. In entrambi i casi, i discepoli si mostrano gelosi, sono esclusivisti; ragionano con lo schema: “Chi non è con noi, è contro di noi”; i maestri invece -Mosè e Gesù – ragionano con un altro schema: “Chi non è contro di noi, è con noi”.
Quello che posso capire, ma che non posso condividere, è un certo mal celato disappunto nel vedere cadere ogni privilegio e ogni vantaggio del credente in Cristo: “Allora a che serve fare i bravi cristiani…?” Dovremmo al contrario rallegrarci immensamente di fronte a queste nuove aperture della teologia cattolica. Sapere che anche i nostri fratelli di fuori, hanno almeno la possibilità di salvarsi! Cosa c’è di più liberante e che cosa conferma meglio la infinita generosità di Dio? Dovremmo fare nostro, tutti quanti, il desiderio di Mosè: “Volesse Dio dare a tutti il suo Spirito!”.
Ma voglio dire qual è, a mio parere, quello che può essere di ostacolo a noi credenti nell’accettare questa visione più ampia e positiva della salvezza. In noi prevale spesso una visione in cui la religione è fondamentalmente una questione di doveri da compiere, di meriti da acquisire e di ricompense da ottenere. Allora sì che diventa difficile accettare di essere messi su un piede di parità con chi non ha fatto nulla di tutto questo. È la critica che muovono gli operai della prima ora al padrone della vigna, vedendolo dare la stessa paga a quelli dell’undicesima ora: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo” (Matteo 20, 12).
Ma il cristianesimo non è primariamente una questione di doveri da compiere e di pesi da portare. È grazia, è dono. Non è qualcosa che noi facciamo per Dio, ma è qualcosa che Dio ha fatto per noi. È una grazia e un privilegio immenso aver conosciuto da vicino Cristo, il suo Vangelo, il suo amore. Per cui dovremmo compiangere ed essere pieni di compassione per chi non ha avuto in vita questo privilegio, non invidiarli o essere gelosi.
Qualcuno si domanderà: allora dobbiamo lasciare ognuno tranquillo nella sua convinzione, non evangelizzare più, non promuovere la fede in Cristo e l’adesione alla Chiesa, dal momento che ci si può salvare anche in altri modi? Non proprio. Dobbiamo farlo, come diceva san Pietro, “con dolcezza e rispetto“, ma non dobbiamo lasciare “tranquillo” proprio nessuno, se per tranquillo si intende indifferente. Solo dovremmo far leva più su un motivo positivo che su quello negativo. Quello negativo è: “Credete in Gesù, perché chi non crede in lui sarà condannato in eterno”; il motivo positivo è: “Credete in Gesù, perché è meraviglioso credere in lui, conoscerlo, averlo accanto come Salvatore, nella vita e nella morte”.