Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

I due corpi di Cristo - Festa del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

Deuteronomio 8,2-3.14b-16a; 1 Corinzi 10, 16-17; Giovanni 6, 51-59

Fino a non molti anni fa, la festa del Corpus Domini, che cadeva di giovedì, veniva celebrata con una solennità tutta particolare: la processione più solenne dell’anno, con i bambini della prima comunione che cospargevano di petali la strada, le case con drappi colorati alle finestre… Era l’occasione per i cristiani di esprimere pubblicamente la loro fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.
Ora tutto è più dimesso e silenzioso. Nelle nostre città le processioni hanno ceduto il posto ai cortei. Ma se tutto questo servisse a spingerci ad approfondire il significato del mistero e a una fede più consapevole, avremmo trasformato in guadagno quello che sembra un perdita. È quello che vorremmo tentare di fare in questi pochi minuti.
Nella seconda lettura della festa odierna sanPaolo scrive:

“Il calice della benedizione che noi benediciamo,
non è forse comunione con il sangue di Cristo?
E il pane che noi spezziamo,
non è forse comunione con il corpo di Cristo?”

L’Eucaristia è dunque fondamentalmente un mistero di comunione. Noi conosciamo diversi tipi di comunione. Quella tra gli sposi che formano una sola carne è certamente una comunione profondissima. Anche la comunione tra la madre e il figlio che porta in grembo è reale e fortissima. Ma in nessuno di questi casi la comunione raggiunge il suo fondo, perché ognuno resta se stesso, separato dall’altro, non c’è fusione. Per vivere, il bambino deve separarsi dalla madre, uscire da lei; se resta con lei, nel suo seno, muore.
Una comunione più profonda è quella tra noi e il cibo che mangiamo, perché questo diventa carne della nostra carne e sangue del nostro sangue. Ho sentito delle mamme dire alla loro creatura, mentre se la stringevano al petto e la baciavano: “Ti voglio così bene che ti mangerei!”. È vero che il cibo non è una persona vivente e intelligente con la quale possiamo scambiarci pensieri e affetti, ma supponiamo, per un momento, che il cibo sia esso stesso vivente e intelligente, non vi sembra che allora si avrebbe finalmente la perfetta comunione?
Ora questo è quello che avviene nella comunione eucaristica. Gesù, nel brano evangelico, dice:

“Io sono il pane vivo disceso dal cielo…
La mia carne è vero cibo…
Chi mangia la mia carne avrà la vita eterna”.

Qui il cibo non è una semplice cosa, ma è una persona vivente. Si ha la più intima, anche se la più misteriosa, delle comunioni.
Cerchiamo di approfondire questo punto. Guardiamo cosa avviene in natura, nell’ambito della nutrizione. È il principio vitale più forte che assimila quello meno forte. Per esempio, è il vegetale, la pianta, che assimila il minerale, cioè i sali, l’acqua ecc.; salendo più su, è l’animale che assimila il vegetale, per esempio il bue che si nutre dell’erba, non viceversa.
Quando questa legge viene trasferita nei rapporti tra l’uomo e Cristo, cosa succede? Anche qui è il principio vitale più forte che assimila a sé il meno forte. In altre parole, è Cristo che assimila noi a sé, non noi che assimiliamo Cristo a noi. Cioè, noi ci trasformiamo in lui, non lui in noi. Un famoso materialista ateo ha detto: “L’uomo è ciò che mangia”. Senza saperlo ha dato un’ottima definizione dell’Eucaristia. Grazie ad essa, l’uomo diventa davvero ciò che mangia, cioè corpo di Cristo!
Adesso però una piccola riflessione. Paolo ci ha detto che il calice è comunione con il sangue di Cristo e il pane è comunione con il corpo di Cristo. Ma che significano le parole corpo e sangue? Per noi occidentali, eredi della cultura greca, il corpo non è altro che una terza parte dell’uomo, che, unito all’anima e all’intelligenza, forma l’uomo completo. Il sangue poi è addirittura una parte di una parte dell’uomo, perché esso non è che una componente del corpo che, a sua volta, è una componente dell’uomo.
Nella Bibbia e nel linguaggio di Gesù, non è così. Corpo indica tutto l’uomo in quanto vive in una dimensione corporale, non è puro spirito. Indica l’uomo in tutta la sua concretezza, la vita umana con tutto ciò che la costituisce: gioie e speranze, fatica e sudore…Il sangue poi, per un ebreo, è la sede della vita. (Per questo, ancora oggi, gli ebrei osservanti non mangiano carni soffocate, con il sangue dentro, perché sarebbe mangiare la vita). Il versamento del sangue perciò è il segno plastico della morte.
Gesù dunque, dandoci il suo corpo, ci ha dato la sua vita, dal primo istante del suo concepimento nel seno di Maria fino all’ultimo; dandoci il suo sangue, ci ha dato la sua morte. Ci ha dato tutto. Ecco cosa significa “comunicarsi”: entrare in contatto con la vita di Gesù e con la sua morte, riceverne su di sé l’immenso potere salvifico.
Colui che nella sua vita comandava ai venti e al mare e gli obbedivano, che toccava i lebbrosi ed essi guarivano, toccava i ciechi e vedevano, prendeva per mano gli storpi ed essi si alzavano: lo stesso, con lo stesso potere, è ora dentro di te! Se noi cristiani scoprissimo che cosa abbiamo nell’Eucaristia! Diceva un ateo: “Se io potessi credere che in quell’ostia consacrata, c’è davvero Dio, come dite voi, credo che cadrei in ginocchio e non mi rialzerei più!”. Aveva ragione.
Ma c’è di più. Siccome il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo unico Dio, possiedono una stessa natura divina, dove c’è il Figlio, Gesù Cristo, c’è anche il Padre e c’è lo Spirito Santo. Nell’Eucaristia noi possiamo dunque entrare in comunione anche con il Padre e con lo Spirito Santo, cioè con tutta la Trinità.
Un canto eucaristico che mi piace assai ha un ritornello che dice: “Dio ci ha messo il suo corpo tra le mani!”. È vero. Ma noi che ne facciamo del corpo di Dio? Oggi è diventato abituale e facile accostarsi alla comunione ed è una cosa ottima. Così deve essere: che ad ogni Messa i presenti si comunichino. Però questo non dovrebbe portarci a banalizzare l’Eucaristia, a farci accostare ad essa come se si trattasse di ordinario pane, con la coscienza gravemente in disordine. “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Corinzi 11,29), ammonisce l’Apostolo.
Ma leggiamo il seguito del testo iniziale di sanPaolo:

“Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo:
tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”.

È chiaro che in questo secondo caso la parola “corpo” non indica più il corpo di Cristo nato da Maria, ma indica “tutti noi”, indica quel corpo di Cristo più grande che è la Chiesa. Che vuol dire questo? Che la comunione eucaristica è sempre anche comunione tra noi. Mangiando tutti dell’unico cibo, noi formiamo un solo corpo.
Quale la conseguenza? Che non possiamo fare vera comunione con Cristo, se siamo divisi tra noi, ci odiamo, non siamo pronti a riconciliarci. Se tu hai offeso un tuo fratello, se hai commesso un’ingiustizia contro di lui, e poi vai a ricevere la comunione come niente fosse, magari pieno di fervore nei confronti di Cristo, tu somigli a una persona che vede venire verso di sé un amico che non vede da molto tempo. Gli corre incontro, gli getta le braccia al collo e si alza in punta di piedi per baciarlo sulla fronte…Ma, nel fare questo, non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I fratelli infatti, specie i più poveri e derelitti, sono le membra di Cristo, sono i suoi piedi posati ancora sulla terra. Quell’uomo potrebbe dire all’amico: “Amico, tu mi onori invano. Mi baci la fronte, ma mi calpesti i piedi!”. E lo stesso potrebbe dirci Gesù nella comunione.
Ma non basta non portare rancore, non essere in discordia con nessuno, l’Eucaristia ci insegna a fare qualcosa di ben più grande: a dare anche noi il corpo e il sangue per i fratelli, come ha fatto Gesù per noi. Pensando alle persone che ci sono affidate (una mamma ai suoi famigliari, una suora ai suoi malati, un sacerdote ai suoi fedeli), tutti possiamo dire con Gesù nella Messa, il sacerdote a voce alta, gli altri con il cuore: “Prendete, mangiate questo è il corpo -cioè la mia vita, il mio tempo, le mie energie- che io voglio spendere per voi”. “Prendete, bevete, questo è il mio sangue -cioè il mio sudore, la fatica, la sofferenza, la malattia- che io voglio dare per voi”.
In questo modo, noi non celebriamo solo l’Eucaristia, ma diventiamo eucaristia, pane spezzato e dono gli uni per gli altri. Anche un semplice sorriso donato agli altri acquista, allora, un significato diverso: è un dare il proprio “corpo”, perché sorridere è proprio di uno spirito che vive nel corpo. Ed è un dono così prezioso! È come spalancare a chi ti sta davanti le porte di casa e dirgli: Entra! È un aprirsi all’altro ed accoglierlo.
Nel darci l’ostia il sacerdote dice: “Il corpo di Cristo”, e noi rispondiamo: “Amen!”. “Amen” significa, sì, ci credo, ti accetto. Adesso sappiamo a chi diciamo “Amen”: non solo a Gesù, il Figlio di Dio, ma anche a chi ci vive accanto, all’umanità, alla vita. Celebriamo così la festa del Corpus Domini: come la festa della vita, dell’unità e dell’amore.