Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

Gloria a Dio e pace agli uomini - Natale del Signore (Messa della notte)

Isaia 9, 2-4.6-7; Tito 2, 11-14; Luca 2, 1-14

Un’antica consuetudine prevede per la festa di Natale tre Messe, dette rispettivamente “della notte”, “dell’aurora” e “del giorno”. In ognuna, attraverso le letture che variano, viene presentato un aspetto diverso del mistero, in modo da avere di esso una visione per così dire tridimensionale. La Messa della notte ci descrive il fatto della nascita di Cristo e le circostanze in cui avvenne. La Messa dell’aurora, con i pastori che vanno a Betlemme, ci indica quale deve essere la nostra risposta all’annuncio del mistero: andare senza indugio anche noi ad adorare il Bambino. La Messa del giorno, con al centro il Prologo di Giovanni, ci rivela chi è in realtà colui che è nato: il Verbo eterno di Dio esistente prima della creazione del mondo.
La Messa della notte, dicevo, si concentra sull’evento, sul fatto storico. Questo è descritto con sconcertante semplicità, senza apparato alcuno. Tre o quattro righe fatte di parole umili e consuete, per descrivere l’avvenimento, in assoluto, più importante nella storia del mondo e cioè la venuta di Dio sulla terra:

“Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.

Il compito di mettere in luce il significato e la portata di questo avvenimento è affidato, dall’evangelista, al canto che gli angeli intonano, dopo aver dato l’annuncio ai pastori:

“Gloria a Dio nell’alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama”.

A questo breve canto angelico furono aggiunte, fin dal II secolo, alcune acclamazioni a Dio (“Ti lodiamo, ti benediciamo…”), seguite, un po’ più tardi, da una serie di invocazioni a Cristo (“Signore Dio, agnello di Dio…”). Così ampliato, il testo fu introdotto, prima nella Messa di Natale e poi in tutte le Messe dei giorni festivi, come avviene anche oggi. Il Gloria cantato o recitato all’inizio della Messa costituisce perciò un richiamo del Natale presente in ogni Eucaristia, quasi a significare la continuità vitale che c’è tra la nascita e la morte di Cristo, la sua incarnazione e il suo mistero pasquale.
L’acclamazione angelica è composta di due membri, in cui i sin¬goli elementi si corrispondono tra loro in perfetto parallelismo. Abbiamo tre coppie di termini in contrasto tra di loro: gloria – pace; a Dio – agli uomi¬ni; nell’alto dei cieli – in terra.
Si tratta di una proclamazione all’indicativo, non all’ottativo; gli angeli proclamano una notizia, non esprimono solo un desiderio e un voto. Il verbo sottinteso non è sia, ma è: non ”sia pace”, ma “è pace”. In altre parole, con il loro canto gli angeli esprimono il senso di ciò che è accaduto, dichiarano che la nascita del Bambino realizza la gloria di Dio e la pace per gli uomini. Così interpreta le parole degli angeli la liturgia che nel canto di ingresso di questa Messa ripete: “Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo”.
Vediamo ora di cogliere il significato dei singoli termini del cantico. “Gloria” (doxa) non indica qui solo lo splendore divino che fa parte della sua stessa natura, ma anche e più ancora la gloria che si manifesta nell’agire personale di Dio e che suscita glorifi¬cazione da parte delle sue creature. Non si tratta della gloria oggettiva di Dio, che esiste sempre e indipendentemente da ogni riconoscimento, ma della conoscenza, o della lode, della gloria di Dio da parte degli uomini. San Paolo parla, in questo stesso senso, della “conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Corinzi 4, 6).
“Pace” (eirene) indica, secondo il senso pregnante della Bibbia, l’insieme dei beni messianici attesi per l’era escatologica; in parti¬colare, il perdono dei peccati e il dono dello Spirito di Dio. Il ter¬mine è assai vicino a quello di grazia, al quale è quasi sempre affiancato nel saluto che si legge all’inizio delle lettere degli apostoli: “Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre” (cfr. Romani 1, 7). Esso indica assai più che l’as¬senza o l’eliminazione di guerre e di contrasti umani; indica il ri¬stabilito, pacifico e filiale rapporto con Dio, cioè, in una parola, la salvezza. “Giustificati per la fede, noi siamo in pace con Dio” (Romani 5, 1). Su questa linea, la pace verrà identifi¬cata con la persona stessa di Cristo: “Egli è, infatti, la nostra pace” (Efesini 2, 14).
Infine il termine “beneplacito” (eudokia) in¬dica la sorgente di tutti questi beni e il motivo dell’agire di Dio che è il suo amore. In passato il termine veniva tradotto con “buona volontà”, (pax hominibus bonae voluntatis), intendendo con ciò la buona volontà degli uomini, o gli uomini di buona volontà. Con questo significato l’espressione è entrata nel canto del Gloria ed è diventata corrente nel linguaggio cristiano. Dopo il concilio Vaticano II si usa indicare con questa espressione tutti gli uomini onesti, che ricercano il vero e il bene comune, siano essi credenti o non credenti.
Ma è una interpretazione inesatta, oggi riconosciuta da tutti come tale. Nel testo biblico originale si tratta degli uomini che sono benvoluti da Dio, che sono oggetto della buona volontà divina, non che sono essi stessi dotati di buona volontà. In questo modo l’annuncio risulta ancora più consolante. Se la pace fosse accordata agli uomini per la loro buona volontà, allora essa sarebbe limitata a pochi, a quelli che la meritano; ma sic¬come è accordata per la buona volontà di Dio, per grazia, essa è offerta a tutti. Il Natale non è un appello alla buona volontà degli uomini, ma annuncio ra¬dioso della buona volontà di Dio per gli uomini.
La parola chiave per capire il senso della proclamazione angelica è dunque l’ultima, quella che parla del “benvolere” di Dio verso gli uomini, come fonte e origine di tutto quello che Dio ha cominciato a realizzare a Natale. Ci ha predestinati a essere suoi figli adottivi “secondo il beneplacito della sua vo¬lontà”, scrive l’Apostolo; ci ha fatto conoscere il mistero del suo volere, secondo quanto aveva prestabilito “nella sua benevolenza (eudokia)” (Efesini 1, 5.9). Natale è la suprema epifania di quella che la Scrittura chiama la filantropia di Dio, cioè il suo amore per gli uomini:

“Si sono manifestati la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini” (Tito 3, 4).

Vi sono due modi di manifestare a un altro il proprio amore. Il primo consiste nel fare doni alla persona amata. Dio ci ha amato così nella creazione. La creazione è tutta un dono: dono è l’essere che posse¬diamo, dono i fiori, l’aria, il sole, la luna, le stelle, il cosmo in cui la mente umana si perde. Ma c’è un secondo modo di manifestare a un altro il proprio amore, molto più difficile del primo, ed è dimenticarsi di sé stessi e sof¬frire per la persona amata. E questo è l’amore con cui Dio ci ha amati nella sua incarnazione. San Paolo parla dell’incarnazione come di una kenosi, di uno spogliamento di sé, che il Figlio ha realizzato nel prendere la forma di servo (cfr. Filippesi 2, 7). Dio non si è accontentato di amarci con amore di munificenza, ma ci ha amati anche con amore di sofferenza.
Per comprendere il mistero del Natale bisogna avere il cuore dei santi. Essi non si fermavano alla superficie del Natale, ma penetra¬vano nell’intimo del mistero. “L’incarnazione, scriveva la Beata Angela da Foligno, compie in noi due cose: la prima è che ci riempie di amore; la seconda che ci rende certi della nostra salvezza. O ca¬rità che nessuno può comprendere! O amore al di sopra del quale non c’è amore maggiore: il mio Dio si è fatto carne per farmi Dio! O amore sviscerato: hai disfatto te per fare me. L’abisso del tuo farti uomo strappa alle mie labbra parole così sviscerate. Quando tu, Gesù, mi fai capire che sei nato per me, com’è pieno di gloria per me il capire un tale fatto!”. Durante le festività del Natale, in cui avvenne il suo transito da questo mondo, questa insuperata scrutatrice degli abissi di Dio, una volta, rivolta ai figli spirituali che la circondava¬no, esclamò: “Il Verbo si è fatto carne!”. E dopo una lunga ora in cui era rimasta assorta in questo pensiero, quasi tornando da molto lontano, aggiunse: “Ogni creatura viene meno. Tutta l’intelligenza degli angeli non basta!”. E ai presenti che le chiedevano in che co¬sa ogni creatura viene meno e a che cosa l’intelligenza degli angeli non basta, rispose: “A comprendere!”.
Solo dopo aver contemplato la “buona volontà” di Dio verso di noi, possiamo occuparci anche della “buona volontà” degli uomi¬ni, cioè della nostra risposta al mistero del Natale. Questa buona volontà si deve esprimere mediante l’imitazione del mistero dell’agire di Dio. E l’imitazione è questa: Dio ha fatto consistere la sua gloria nell’amarci, nel rinunciare alla sua gloria per amore: anche noi dobbiamo fare lo stesso. Scrive l’Apostolo:

“Fatevi imitatori di Dio come figli carissimi e camminate nell’amore” (Efesini 5, 1-2).

Imitare il mistero che celebriamo significa abbandonare ogni pensiero di farci giustizia da soli, ogni ricordo di torto ricevuto, cancellare dal cuore ogni risentimento anche giusto, verso tutti. Non ammettere volontariamente nessun pensiero ostile, contro nessuno: né contro i vicini, né contro i lontani, né contro i deboli, né contro i forti, né contro i piccoli, né contro i grandi della terra, né contro alcuna creatura che esiste al mondo. E questo per onora¬re il Natale del Signore, perché Dio non ha serbato rancore, non ha guardato il torto ricevuto, non ha aspettato che altri facesse il pri¬mo passo verso di lui. Se questo non è possibile sempre, tutto l’an¬no, facciamolo almeno nel tempo natalizio. Non c’è modo migliore di esprimere la propria gratitudine a Dio che imi¬tandolo.
Abbiamo visto all’inizio che il Gloria a Dio non esprime un de¬siderio, un voto, ma una realtà; non suppone un sia, ma un è. Noi però possiamo e dobbiamo farne anche un desiderio, una pre¬ghiera. Si tratta infatti di una delle più belle e complete preghiere che esistano. “Sia gloria a Dio nell’alto dei cieli” racchiude la migliore preghiera di lode e “sia pace in terra agli uo¬mini amati dal Signore” racchiude la migliore preghiera di inter-cessione.
Nel cantico degli angeli l’evento si fa pre¬sente, la storia si fa liturgia. Ora e qui, perciò, viene proclamato ed è a noi che viene proclamato, da parte di Dio: Pace agli uomini che egli ama! Che dai penetrali della Chiesa questo annuncio dol¬cissimo giunga oggi al mondo intero a cui è destinato: Pace in terra agli uomini amati dal Signore!