Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

Vegliate! - I Domenica di Avvento

Isaia 2, 1-5; Romani 13, 11-14; Matteo 24, 37-44

Inizia oggi il primo anno del ciclo liturgico triennale. Ci accompagna in esso il Vangelo di Matteo. Secondo una tradizione antichissima (oggi però messa in discussione) Matteo avrebbe scritto il suo Vangelo in aramaico, anche se a noi è giunta solo la sua versione greca. È il vangelo più completo e questo spiega il posto di privilegio che ha sempre occupato nell’uso della Chiesa. Alcune caratteristiche di questo Vangelo sono: l’ampiezza con cui sono riportati gli insegnamenti di Gesù (i famosi discorsi, come quello della montagna), l’attenzione al rapporto Legge–Vangelo (il Vangelo è la “nuova Legge”). È considerato il Vangelo più “ecclesiastico” per il racconto del primato a Pietro e per l’uso del termine Ecclesia, Chiesa, che non si incontra negli altri tre Vangeli.
La parola che si staglia su tutte, nel Vangelo di oggi, è:

“Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”

Se l’anno liturgico è ai suoi inizi, l’anno civile volge al suo termine. Un altro cerchio si chiude. Nel fusto dell’albero ogni anno che passa lascia un segno: un cerchio ben visibile nella sezione orizzontale della pianta. Così avviene dell’uomo. La stessa natura in autunno ci invita a riflettere sul tempo che passa. Quello che il poeta G. Ungaretti diceva dei soldati in trincea sul Carso, durante la prima guerra mondiale, vale per tutti gli uomini:

“Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie”.

Cioè, in procinto di cadere da un momento all’altro. La natura stessa, in questa stagione, ci predica silenziosamente se sappiamo ascoltarla. Guardiamo cosa succede sugli alberi. A ogni folata di vento, sono foglie che cadono. Un minuto prima nessuno sa a quale di esse toccherà. Si staccano, volteggiano per un po’ nell’aria, e sono a terra per sempre. Fra qualche giorno non ne resterà più alcuna.
“Vàssene il tempo -diceva il nostro Dante Alighieri- e l’uom non se n’avvede”. Un filosofo antico ha espresso questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre: panta rei, cioè: tutto scorre. Succede nella vita come sullo schermo televisivo: i programmi, cosiddetti palinsesti, si susseguono rapidamente e ognuno cancella il precedente. Lo schermo resta lo stesso, ma le immagini cambiano.
Così è di noi: il mondo rimane, ma noi ce ne andiamo uno dopo l’altro. Di tutti i nomi, i volti, le notizie che riempiono i giornali e i telegiornali di oggi -di me, di te, di tutti noi- cosa resterà da qui a qualche anno o decennio? Nulla di nulla. L’uomo non è che “un disegno creato dall’onda sulla spiaggia del mare che l’onda successiva cancella”.
Nel tentativo di non passare e di non morire del tutto, ci aggrappiamo ora alla giovinezza, ora all’amore, ora ai figli, ora alla fama. “Non morirò del tutto, esclamava un poeta romano, ho eretto (con le mie poesie) un monumento più duraturo del bronzo”. Sì, ma a che serve ormai a lui questo “monumento”? Serve a noi, ma non a lui. “L’uomo non è che un soffio, i suoi giorni come ombra che passa”, ripete la Bibbia e credo che almeno su questo punto tutti siamo pronti a darle ragione.
Al momento stesso della nascita inizia per ognuno un conteggio alla rovescia che non si arresta un solo istante, né di giorno né di notte. Nei nostri conventi avevamo una volta dei grandi orologi a pendolo su cui era scritto, come per ammonirci: Vulnerant omnes, ultima necat, “Tutte (s’intende, le ore) feriscono, l’ultima uccide”.
Di fronte a questa esperienza che tutto passa, si possono prendere diversi atteggiamenti. Uno, molto antico e ricordato nella stessa Bibbia, è quello di chi dice: “Mangiamo e beviamo, tanto domani moriremo” (Isaia 22,13). Gesù nel Vangelo odierno, parlando dei giorni che precedettero il diluvio, dice: “Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e andavano a marito… e non si accorsero di nulla, finché venne il diluvio e li inghiottì tutti”.
Un atteggiamento, certo migliore, è quello di chi dice con san Paolo: “Mentre abbiamo ancora tempo, cerchiamo di fare del bene” (Galati 6,10). Ci sono persone oneste e di buona volontà che non hanno la fede, ma cercano di attenersi a questo programma di impiegare la vita per fare del bene. Meritano ammirazione e rispetto, perché per essi è ancora più difficile.
Vediamo cosa ha da dirci la fede a proposito di questo dato di fatto che tutto passa.

“Il mondo passa, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giovanni 2, 17).

C’è dunque qualcuno che non passa, Dio, e c’è un modo per non passare del tutto neanche noi: fare la volontà di Dio, cioè credere, aderire a Dio. Una delle immagini più frequenti con cui la Bibbia ci parla di Dio è quella della roccia. “Egli è la Roccia, perfetta è l’opera sua” (Deuteronomio 32,4). Intuii cosa vuole dirci con ciò la Parola di Dio il giorno che, per la prima volta, vidi da vicino il Cervino.
Ecco dunque la proposta della fede: passare a colui che non passa! Passare dal mondo, per non passare con il mondo. Se Dio è la roccia, noi dobbiamo essere dei “rocciatori”. Quante cose potremmo imparare dai rocciatori! Quando sopraggiunge una bufera, essi ancor più si attaccano alla roccia…Tra loro e la roccia si stabilisce una specie di segreta intesa, una connivenza, un’amicizia. I rocciatori hanno molta confidenza con la roccia, ma anche un salutare rispetto e timore riverenziale. Così dovrebbe essere tra noi e Dio.
In questa vita noi siamo come persone su una zattera trasportata dalla corrente di un fiume in piena verso il mare aperto, da cui non c’è ritorno. A un certo punto, la zattera si viene a trovare vicino alla riva. Il naufrago dice: “O ora o mai più!” e spicca il salto sulla terra ferma. Che respiro di sollievo quando sente la roccia sotto i suoi piedi! È la sensazione che ha spesso colui che arriva la fede. Vorrei ricordare alcune parole famose lasciateci da santa Teresa d’Avila: “Niente ti turbi, niente di spaventi. Tutto passa, Dio solo resta”.
Ma non tutto finisce qui, con una riflessione sapienziale, tutto sommato sterile. C’è un imperativo che scaturisce da tutto ciò. Quello appunto formulato nel Vangelo di oggi:

“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà…
State pronti, perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo verrà!”.

Ci si chiede a volte: perché Dio ci nasconde una cosa così importante com’è l’ora della sua venuta, cioè della nostra morte? La risposta tradizionale è: “Perché fossimo vigilanti, ritenendo ognuno che il fatto può accadere ai suoi giorni” (S. Efrem Siro). Ma il motivo principale è che Dio ci conosce; sa quale terribile angoscia sarebbe stata per noi conoscere in anticipo l’ora esatta e assistere al suo lento e inesorabile approssimarsi. È quello che più spaventa di certe malattie. Più numerosi sono oggigiorno quelli che muoiono per malattie improvvise di cuore, che quelli che muoiono dei cosiddetti “mali brutti”. Eppure, quanta più paura fanno queste ultime malattie! Perché? Appunto perché ci sembra che tolgano quell’incertezza che ci permette di sperare.
L’avvertimento “tutto passa” è rivolto più ai giovani che agli anziani. C’è, a questo proposito, una parola della Bibbia che non posso trattenermi dal proporre ai giovani. Dice:

“La giovinezza e i capelli neri sono un soffio.
Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: Non ci provo alcun gusto” (Qoelet 12, 1).

A questo punto la vecchiaia è evocata con una serie immagini delicate: i rumori che si affievoliscono a causa della sordità, i colori che attenuano, il passo che si fa incerto, la paura della strada e della salita. E poi l’immagine finale della carrucola e del secchio: dopo tanto salire e scendere del secchio nel pozzo, arriva il giorno che la catena si rompe e il secchio precipita nel fondo e non risale più. Il mandorlo a primavera torna a fiorire, ma l’uomo una volta caduto non si rialza più. Il brano termina con la ben nota frase:

“Vanità delle vanità e tutto è vanità” (Qoelet 11,10- 12, 8).

Un tempo questa parola veniva ripetuta anche troppo spesso, ora non la si sente quasi più. Eppure non è male che anche la nostra generazione ci faccia un pensierino sopra. Non per disamorarci della vita, ma per vivere meglio, con più serenità, meno agitazione, meno stress, come si dice oggi. Prendere coscienza che tutto passa: potrebbe essere anch’esso un rimedio “contro il logorio della vita moderna”.