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Se uno viene dietro a me... - XXIII Domenica del Tempo ordinario

Sapienza 9, 13-18b; Filemone 9b-10.12-17; Luca 14, 25-33

Il brano di Vangelo di questa Domenica è uno di quelli che si sarebbe tentati di smussare e addolcire come troppo duro per gli orecchi degli uomini d’oggi. Ascoltiamo:

“Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo… Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.

Precisiamo subito una cosa. Il Vangelo è, sì, a volte, provocatorio, ma non è mai contraddittorio. Poco oltre, nello stesso Vangelo di Luca, Gesù richiama con forza il dovere di onorare il padre e la madre (cfr. Luca 18 20) e, a proposito di marito e moglie, dice che devono essere una sola carne e che l’uomo non ha diritto di separare quello che Dio ha congiunto. Come può dunque, dirci, adesso, di odiare il padre e la madre, la moglie, i figli e i fratelli?
Per non vedere lo scandalo dove non è, bisogna tener presente un fatto. La lingua ebraica non possiede il comparativo di maggioranza o di minoranza (amare una cosa più di un’altra, o meno di un’altra); semplifica e riduce tutto a amare o odiare. La frase: “Se uno viene a me e non odia il padre e la madre…”, va dunque intesa nel senso: “Se uno viene a me, senza preferirmi al padre e alla madre…”. Basta, per rendersene conto, leggere lo stesso brano nel Vangelo di Matteo dove suona così: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me” (Matteo 10,37).
Ma con questo non abbiamo tolto al brano la sua carica provocatoria, che resta intatta. Gesù chiede che l’amore per lui passi avanti a tutti gli altri amori, sia a quello per le persone care (padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle), sia a quello per i propri averi. E non si tratta solo di amarlo, quantitativamente, “un po’ di più delle altre cose”, ma di un amore qualitativamente diverso e a parte. San Benedetto, che lo aveva capito, ha lasciato ai suoi monaci il motto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo”. La frase dietro cui spesso ci si trincera: “Ho moglie e figli”, potrà dunque valere in molte circostanze della vita, ma non scusa il disimpegno nei confronti di Cristo.
Il brano che abbiamo ascoltato è l’espressione più chiara di quello che si chiama il radicalismo evangelico. È curioso notare una cosa: Gesù che altrove dice: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi”, qui sembra dire il contrario, e cioè: “Pensateci bene, prima di venire a me…”. Questo infatti è il senso dell’esempio che adduce, a sostegno delle sue precedenti parole:

“Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.

Non si può prendere il cristianesimo alla leggera. Gesù ci mette in guardia contro il tentativo di addomesticare tutto e di fare della religione e di Dio stesso uno dei tanti ingredienti nel grande cocktail della vita. Andiamo a Messa in qualche festa o in qualche funerale, magari diamo l’otto per mille alla Chiesa, e crediamo così di aver fatto più che il dovuto nei suoi riguardi. La fede occupa la sua nicchia, accanto a quelle, forse ben più ampie, rappresentate dal lavoro, il guadagno, la politica, il divertimento, lo sport, la caccia, la pesca, e mille altre cose.
Diciamo anzitutto una cosa: un uomo che parla così, che chiede di essere amato più del padre, della moglie, dei figli, o è un pazzo esaltato, o è Dio. Basta rifletterci e si capisce che non c’è via di mezzo. Chi, se non Dio solo, può pretendere tanto? Ora la storia, da sola, non è in grado di dimostrare che Gesù Cristo è Dio (questo lo può fare solo la fede), ma una cosa può dimostrare, e in venti secoli ha dimostrato: che non era un pazzo e un esaltato, visto che ha cambiato il mondo e la storia. A noi di tirare la conclusione.
Gli studiosi continuano ad affannarsi per cercare, nei vangeli, prove della divinità di Cristo, cioè del fatto che egli era consapevole di essere il Figlio di Dio. Ebbene, eccone una per me tra le più convincenti, proprio perché indiretta, non messa lì per provare qualcosa. Nelle richieste che fa all’uomo, Gesù si comporta come solo Dio può comportarsi. Gli chiede esattamente ciò che chiedeva Dio agli ebrei nell’Antico Testamento: di amarlo sopra tutte le cose (cfr. Deuteronomio 6, 5).
Ma sarebbe sbagliatissimo pensare che questo amore per Cristo entri in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un “rivale in amore” di nessuno e non è geloso di nessuno. Nell’opera La scarpetta di raso di Paul Claudel, la protagonista, fervente cristiana ma anche follemente innamorata di Rodrigo, esclama tra sé, quasi stentasse a crederci: “È dunque permesso questo amore delle creature l’una per l’altra? Davvero, Dio non è geloso?”. E il suo angelo custode le risponde: “Come potrebbe essere geloso di ciò che ha fatto lui stesso?” (atto III, scena 8).
L’amore per Cristo non esclude gli altri amori, ma li ordina. Anzi, è colui nel quale ogni genuino amore trova il suo fondamento e il suo sostegno e la grazia necessaria per essere vissuto fino in fondo. Questo è il senso della “grazia di stato” che il sacramento del matrimonio conferisce ai coniugi cristiani. Esso assicura che, nel loro amore, essi saranno sorretti e guidati dall’amore che Cristo ha avuto per la sua sposa, la Chiesa.
Gesù non illude nessuno, ma neppure delude nessuno; chiede tutto perché vuole dare tutto; anzi ha dato tutto. Qualcuno potrebbe domandarsi: ma che diritto ha quest’uomo, vissuto venti secoli fa in un angolo oscuro della terra, di chiedere a tutti questo amore assoluto? La risposta, senza bisogno di risalire troppo lontano, si trova nella sua vita terrena che conosciamo dalla storia: è che egli, per primo, ha dato tutto per l’uomo. “Ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (cfr. Efesini 5, 2). Un giorno della settimana santa di tanti secoli fa, una donna di Foligno, giovane, bella e agiata, rimasta da poco vedova, meditava in una chiesa -l’attuale duomo della città- sulla passione del Salvatore, quando, all’improvviso, sentì risuonare nella sua mente con grande forza queste parole: “Non ti ho amato per scherzo!”. Scoppiò a piangere perché di colpo si rese conto che il suo amore per Gesù non era stato, fino allora, se non, appunto, “uno scherzo”, in confronto a quello di Cristo per lei. Questa donna laica, inizialmente senza cultura alcuna, è diventata una delle più grandi mistiche in assoluto della storia del cristianesimo. Si tratta della Beata Angela da Foligno.
Nel nostro stesso Vangelo Gesù ci ricorda anche quale è il banco di prova e il segno del vero amore per lui: “prendere su di sé la propria croce”. Prendere la propria croce non significa andare in cerca di sofferenze. Neppure Gesù è andato a cercarsi lui la sua croce; ha preso su di sé, in obbedienza alla volontà del Padre, quella che gli uomini gli mettevano sulle spalle e con il suo amore obbediente l’ha trasformata da strumento di supplizio in segno di redenzione e di gloria. Gesù non è venuto ad accrescere le croci umane, ma piuttosto a dare ad esse un senso. È stato detto giustamente che “chi cerca Gesù senza la croce, troverà la croce senza Gesù”, cioè senza la forza di portarla. L’Imitazione di Cristo ammonisce: “Se porti volentieri la croce, essa porterà te e ti condurrà al desiderato fine, dove la sofferenza avrà fine. Se la porti per forza, te ne fai un peso che ti graverà sempre più. Se getti via una croce, sicuramente ne troverai un’altra, e forse più pesante…Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio; e tu pretendi per te riposo e gaudio?” (II,12).
A una proposta radicale come quella del Vangelo di oggi, non si può rispondere se non con una presa di posizione altrettanto radicale. Proprio la Beata Angela da Foligno ci aiuta a capire di che si tratta. Un giorno, quando era ormai avanti nella santità, riflettendo sul suo amore per Dio, ella si rese conto d’improvviso che esso non era ancora assoluto e totalitario come pensava. Amava, sì, Dio sopra tutte le cose, ma con Dio amava anche qualche altra cosa, per esempio le consolazioni di Dio. In quel momento udì di nuovo la voce di Cristo che le chiedeva: “Angela, che cosa vuoi?”. E lei, raccogliendo in un grido tutta la forza della sua volontà: “Voglio Dio!”.
Ogni volta che ho raccontato questo episodio in una mia predica, c’è stato qualcuno che è stato fulminato da quel grido e ha deciso di farlo proprio. Spero che avvenga anche questa volta.