2010-04-09- Corriere della Sera
«AVEVO INTENZIONI AMICHEVOLI, NON VOLEVO URTARE LA SENSIBILITÀ DI NESSUNO»
CITTÀ DEL VATICANO — Padre, che cosa direbbe agli ebrei che si sono indignati e hanno parlato di paragone «improprio», o anche «ripugnante e osceno», tra l’antisemitismo e gli attacchi alla Chiesa sui pedofili?
«Se, contro ogni mia intenzione, ho urtato la sensibilità degli ebrei e delle vittime della pedofilia, ne sono sinceramente rammaricato e ne chiedo scusa, riaffermando la mia solidarietà con gli uni e con gli altri». Padre Raniero Cantalamessa, il giorno dopo, è fuori Roma. Al telefono la voce è serena come sempre, ma è rimasto colpito da tutto ciò che è accaduto nelle ultime ore. Frate cappuccino, trent’anni fa è divenuto predicatore della Casa pontificia dopo gli studi di teologia a Friburgo e lettere classiche alla Cattolica. Uomo di fede e cultura, è un profondo conoscitore del cristianesimo delle origini, dei rapporti e dei problemi bimillenari col mondo ebraico. «Io credo che si debba dire della Shoah ciò che Macbeth grida a se stesso dopo aver ucciso il suo re: “Le acque di tutti i fiumi della terra non basteranno a lavare questo sangue”».
Non temeva che quel riferimento all’antisemitismo, di Venerdì Santo, potesse creare problemi?
«Una cosa devo precisare: il Papa non solo non ha ispirato, ma, come tutti gli altri, ha ascoltato per la prima volta le mie parole durante la liturgia in San Pietro. Mai qualcuno del Vaticano ha preteso di leggere in anticipo il testo delle mie prediche, cosa che ritengo un grande atto di fiducia in me e nei media».
«Contro ogni mia intenzione», diceva. Qual era la sua intenzione?
«Quest’anno la Pasqua ebraica cade nella stessa settimana di quella cristiana. Questo ha fatto nascere in me, prima ancora di ricevere la lettera dell’amico ebreo, il desiderio di far giungere ad essi un saluto da parte dei cristiani, proprio dal contesto del Venerdì Santo che è stato sempre purtroppo un’occasione di contrasto e, per loro, di comprensibile sofferenza…».
E la lettera?
«Ho inserito la lettera dell’amico ebreo solo perché mi sembrava una testimonianza di solidarietà nei confronti del Papa così duramente attaccato in questi tempi. La mia era dunque un’intenzione amichevole, tutt’altro che ostile».
Tra l’altro: può dire il nome del suo amico ebreo?
«L’amico ebreo, un italiano molto legato alla sua religione, nella sua lettera mi autorizzava a dire anche il suo nome. Sono io che ho ritenuto opportuno non coinvolgerlo direttamente, e tanto più lo ritengo ora».
Resta il fatto che lei ha toccato un punto delicatissimo…
«Mi dispiace sinceramente di aver urtato la sensibilità degli amici ebrei. Se avessi lontanamente immaginato di innescare questa polemica con essi, mai avrei resa nota la lettera di quell’amico ebreo. Credo che almeno gli ebrei italiani conoscano i miei sentimenti di amicizia più volte espressi nei loro confronti, dallo stesso pulpito di San Pietro. Un’intera predica del Venerdì Santo, nel ’98, la dedicai a mettere in luce le radici storiche dell’antisemitismo cristiano. Qualcuno, penso, la ricorderà perché ebbe larga eco anche in alcune riviste ebraiche».
Ciò che ha creato sconcerto è l’associazione: crede si possano paragonare le persecuzioni contro gli ebrei e gli attacchi alla Chiesa e al Papa per i crimini dei preti pedofili?
«No, non penso affatto che si possano paragonare antisemitismo e attacchi alla Chiesa di questi giorni e credo che neppure l’amico ebreo intendesse farlo. Egli non si riferisce all’antisemitismo della Shoah: intendeva — e mi pare che lo dica chiaramente—”l’uso dello stereotipo e il facile passaggio dalla colpa individuale a quella collettiva”, cioè l’antisemitismo come fatto di cultura, più che come effettiva persecuzione. Ma questo— che cioè si sia in presenza di un diffuso “anticristianesimo” nella nostra società occidentale— non mi sembra che egli sia il solo e il primo a pensarlo».
C’è chi si è stupito perché nell’omelia, con tutto quello che sta accadendo, lei si è soffermato sulla violenza contro le donne.
«In una fase acuta dello scandalo della pedofilia, qualcuno forse ricorderà, perché la cosa ebbe una certa risonanza nei media, che dedicai al tema un discorso alla Casa Pontificia nel quale bollavo questa piaga con parole durissime e chiedevo alla Chiesa di dedicare un giorno di penitenza e di preghiera per solidarietà verso le vittime. Nello stesso discorso del Venerdì Santo, del resto, parlavo anche della violenza sui bambini di cui “si sono sciaguratamente macchiati non pochi membri del clero”. Ma pochi, evidentemente, hanno sentito il bisogno di leggere il testo».
Gian Guido Vecchi
CORRIERE DELLA SERA
DOPO LE REAZIONI DEL MONDO EBRAICO ALL’INCISO DEDICATO ALLA «LETTERA DELL’AMICO ISRAELITA»
Il più diplomatico è stato il rabbino responsabile dei rapporti con le altre religioni del Jewish Committee americano: «Quello del Predicatore Pontificio è stato probabilmente solo un uso sfortunato del linguaggio». Ben altre, lo sappiamo, le reazioni del mondo ebraico all’inciso dedicato alla «lettera dell’amico israelita» nell’omelia pronunciata davanti al Papa da padre Raniero Cantalamessa.
Un cappuccino che conosciamo dai tempi in cui era giovane, brillante docente di Nuovo Testamento alla Cattolica di Milano. Religioso non solo di grande cultura ma anche di autentica vocazione francescana, stupì tutti, dimettendosi da quella cattedra prestigiosa per consacrarsi interamente all’apostolato. Anche per l’equilibrio mostrato nelle pagine dei suoi molti best seller, padre Raniero fu chiamato al ruolo delicato e influente di Predicatore della Casa Pontificia.
Come aspettarsi un infortunio come quello del Venerdì Santo, da parte di uomo che allo zelo pastorale unisce la lunga esperienza e la prudenza, la prima delle virtù cristiane? Ma, innanzitutto: proprio di infortunio si è trattato? Completando la lettura «innocentista» del rabbino americano, ci pare che si debba parlare di inopportunità, considerate anche la sede e l’occasione liturgica, ma che le parole di padre Cantalamessa siano per qualcuno opinabili ma non condannabili. La consueta semplificazione giornalistica ha fatto credere che la persecuzione degli ebrei sia stata, scandalosamente, equiparata alla doverosa severità per la pederastia clericale. In realtà, se si va al testo, il Predicatore Pontificio ha precisato che non intendeva parlare della «sciagurata macchia della pedofilia che ha coinvolto anche elementi del clero», visto che «di questa già si è parlato e si parla molto fuori di qui». Ciò cui padre Raniero intendeva alludere era «l’attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli cattolici in molte parti del mondo». L’oggetto era, insomma, quel crescente «complesso anticristiano» (e, in particolare, anticattolico) di cui su questo giornale parlava di recente anche Ernesto Galli della Loggia (Corriere del 21 marzo, ndr). Secondo Cantalamessa, ci sarebbero i segni di una persecuzione della Chiesa e dei suoi membri già in atto, ma che potrebbe peggiorare. Si tratta di segni che l’amico israelita, di cui ha letto la lettera, sarebbe in grado di identificare per dura esperienza, «sapendo, come ebreo, che cosa significhi essere vittime della violenza collettiva».
Quei segnali allarmanti sarebbero «l’uso dello stereotipo» e «il passaggio dalla responsabilità personale a quella collettiva ». Per stare alla questione pedofilia, lo stereotipo starebbe in quelle rappresentazioni, che diventano luoghi comuni, che identificano vita religiosa e pederastia. O che vedono nella prospettiva cattolica solo il moralismo ipocrita di chi, in segreto, è assai peggio degli altri, praticando vizi inconfessabili.
Da qui, il passaggio a generalizzazioni, come se ogni battezzato fosse, in quanto tale, un potenziale maniaco sessuale; così come, per l’antisemitismo, ogni ebreo era tacciato di essere un cittadino infido e una sanguisuga dei popoli. Una denuncia, insomma, della gravità della persecuzione che colpì gli ebrei e, insieme, della possibilità che anche i cristiani diventino perseguitati. È una prospettiva, peraltro, che già si è fatta realtà: se in Occidente qualcuno vorrebbe respingere il cattolico in una riserva, chiudendolo in una sorta di apartheid, in altre parti del mondo non scorre inchiostro ma sangue. Stando anche alle statistiche della insospettabile Amnesty International, da almeno due decenni il cristianesimo è, nel mondo, la religione più perseguitata. Il martirologio dei credenti nel Vangelo giustifica la denuncia di una persecuzione sempre crescente. Non solo ogni anno Ordini e Congregazioni missionarie stilano un elenco impressionante di vittime, ma le Chiese locali stesse piangono i loro defunti, spesso massacrati nei modi più crudeli.
È a questo scenario di vastità mondiale e di lunga durata, non all’attuale cronaca nera a sfondo sessuale, che voleva riferirsi padre Cantalamessa. Per questo non ha avuto torto il portavoce vaticano, padre Lombardi, nel rassicurare il mondo ebraico che non vi era alcuna intenzione di equiparare le campagne antisemite alle campagne contro la pedofilia. Come se si volesse mettere sullo stesso piano la persecuzione degli innocenti ebrei e la giustizia verso dei religiosi colpevoli non solo di un peccato contro i comandamenti di Dio ma anche contro la legge degli uomini. E ha avuto ragione, il padre Lombardi, anche nel rinviare al testo autentico, per constatare come il padre Cantalamessa non solo non avesse proceduto a cinici confronti, ma desiderasse, anzi, dire la sua gratitudine a un israelita amico e solidale.
Se lette in questo modo, le affermazioni «scandalose» del Predicatore Pontificio non sono più tali: anzi, meritano riflessione perché, mentre deprecano un passato di violenza, denunciano un presente e un possibile futuro segnati essi pure dalla violenza. Questo riconosciuto, non ha torto neppure il pacato rabbino del Jewish Committee nel deprecare «un uso sfortunato del linguaggio» da parte dell’autorevole cappuccino. Più che di «sfortuna » parleremmo, lo si diceva, di inopportunità: come ha ricordato il rabbino capo di Roma, il momento per rischiare equivoci su questi temi non è certo il venerdì santo, ricorrenza di una morte in croce a Gerusalemme. Il malinteso di cui è stato vittima il buon francescano padre Raniero ricorda quello che provocò la sollevazione dell’altro monoteismo, l’islamico. La citazione, fatta da Benedetto XVI nella sua Ratisbona, di una frase ingiuriosa verso Maometto scritta da un imperatore bizantino del XIII secolo, fu «lanciata» dalle consuete agenzie come se rispecchiasse il pensiero del Papa. Al contrario: era stata fatta da papa Ratzinger per dissentirne. Altri, troppo numerosi, infortuni mediatici hanno coinvolto in questi anni la Gerarchia. Le cause? Innanzitutto, forse, l’eccesso di parole dette e scritte; poi, la minor qualità della «macchina» ecclesiale chiamata al controllo dei testi; infine, una certa ingenuità degli uomini di Chiesa. Abituati a discorsi complessi e articolati, non mettono in conto la necessità dei media di sintesi, spesso brutali se non deformanti, che facciano titolo. Educati, poi, alla lealtà, confidano in quella del «mondo» dove, invece, non pochi li attendono al varco per danneggiare quella Chiesa che considerano avversaria. Da qui una «modesta proposta per prevenire»: affiancare, cioè, ai severi corsi di aggiornamento biblico e teologico, anche l’incontro con qualche vecchio, scafato cronista che, ai troppo fiduciosi pastori, riveli trappole e agguati del media-system e gli onesti, ma furbi, trucchi per evitarli.
Vittorio Messori
CORRIERE DELLA SERA