2005-10-20- Italia
Italia Francescana 80 (2005)
a cura di Francesco Neri
Il 2004 è stato un anno significativo nella biografia di padre Raniero Cantalamessa. In estate, infatti, ha compiuto il settantesimo anno di età, essendo nato il 22 luglio 1934 a Colli del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. Ma in dicembre ha anche raggiunto il traguardo di venticinque anni nel servizio di Predicatore apostolico. A tale ufficio egli ha saputo conferire una consistenza forse mai raggiunta prima, ed è ad esso che senza dubbio può ricondursi buona parte della sua notorietà.
Membro della Provincia delle Marche, nel 1951 ha compiuto il noviziato a Camerino, ha emesso la professione perpetua a Loreto nel 1955, e qui nel 1958 è stato ordinato sacerdote. Consegue il dottorato in teologia a Friburgo in Svizzera nel 1962, e la laurea in lettere classiche all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano nel 1969. Presso tale Università diviene docente ordinario di Storia delle origini cristiane, e in seguito direttore del Dipartimento di scienze religiose, succedendo così a Giuseppe Lazzati.
Dal 1975 al 1981 è stato membro della Commissione Teologica Internazionale che in quegli anni ha prodotto importanti documenti come Magistero e teologia (1975), Promozione umana e salvezza cristiana (1976), La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio (1977), Alcune questioni riguardanti la cristologia (1979), Teologia, cristologia, antropologia (1981).
Nel 1979 p. Raniero compie un gesto importante, che può essere considerato in certo senso come uno spartiacque nel suo ministero. Egli lascia infatti l’insegnamento presso la Cattolica, e si dedica a tempo pieno al servizio della Parola. È così che nel 1980 diventa Predicatore della Casa Pontificia, e da allora in questa veste ogni settimana, in Avvento e in Quaresima, detta una meditazione in presenza del papa, dei cardinali, vescovi, prelati e superiori generali di ordini religiosi(1).
Nell’arco di un quarto di secolo, la predicazione di p. Raniero ha potuto abbracciare la totalità degli articoli di fede. Talora essa ha obbedito ad un programma proprio, come nella serie dedicata ai misteri della vita di Cristo, o nell’altra dedicata a commentare il Veni Creator Spiritus. Talvolta la predicazione si è agganciata alle tematiche meditate nella Chiesa universale, come nella preparazione del Giubileo del 2000, dedicata a contemplare le Persone divine separatamente e poi nell’unità del mistero trinitario, o come nell’anno eucaristico in corso, in cui le prediche commentano le strofe dell’inno Adoro Te devote.
Il ministero di evangelizzazione di p. Raniero ha saputo però rivolgersi anche al comune popolo di Dio. Tra gl’innumerevoli spazi di espressione, meritano in primo luogo di essere segnalate le convocazioni nazionali del Rinnovamento nello Spirito, movimento ecclesiale col quale p. Raniero avverte una speciale sintonia. Subito dopo, la predicazione televisiva, i cui inizi risalgono al 1995. Nel solco già aperto da p. Mariano da Torino, ogni sabato sera egli tiene su Rai Uno la rubrica di spiegazione del vangelo della domenica «A sua immagine. Le ragioni della speranza», che raggiunge alti indici di ascolto e di gradimento.
È poi un modo di compiere evangelizzazione a largo raggio anche la collaborazione a riviste di formazione e informazione largamente diffuse, tra cui, soprattutto, Famiglia Cristiana.
In questa breve introduzione, non è possibile presentare in modo completo la bibliografia di padre Raniero. Essa, tra volumi e articoli, sfiora i trecento titoli, comprende traduzioni in circa quindici lingue straniere, e può essere esplorata nel sito web che è dedicato alla sua attività(2). Tuttavia, a voler rintracciare al suo interno un «filo di Arianna» entro il lunghissimo elenco, andrà segnalato il primo gruppo di opere, relativo agli anni della Cattolica ed esplicitamente dedicato alla ricerca su Padri della Chiesa: La cristologia di Tertulliano (1962, dissertazione per la tesi di laurea), e La Pasqua della nostra salvezza (1971, 19843). Molto fitto è l’elenco dei saggi pubblicati in tale ambito sulle riviste La Scuola Cattolica e Vita e Pensiero tra il 1960 e il 1980.
Vi è un gruppo di opere di genere omiletico e comunque dedicate alla liturgia domenicale: La Parola e la vita (anno A: 1977, 19928; anno B: 1978, 19905; anno C: 1979, 19967); Gioia mia, Cristo è risorto! (1988); Gettate le reti (3 voll., 2001, 20032).
Più cospicuo è il gruppo di volumi che raccoglie e rielabora la predicazione tenuta alla casa pontificia. Trattano di cristologia Gesù Cristo il Santo di Dio (1990, 19994); I misteri di Cristo nella vita della Chiesa (1992), che include e rielabora volumi apparsi autonomamente e dedicati ai misteri del Natale (Abbiamo visto la sua gloria, 1987, 20014), del battesimo (Lo Spirito Santo nella vita di Gesù, 1982, 19884), della predicazione della Parola (Ci ha parlato nel Figlio, 1984, 19903), della cena del Signore (L’eucaristia nostra santificazione, 1983, 20009), della pasqua (Il mistero pasquale, 1985, 19995); Il mistero della Trasfigurazione (1999); Il potere della croce (1999); Pasqua (2005). D’argomento pneumatologico sono Il mistero di Pentecoste (1998, incluso pure ne I misteri di Cristo); e Il canto dello Spirito (1997, 19982), un commento all’inno Veni Creator Spiritus. Meditazioni su Dio Padre sono raccolte in Un inno di silenzio (1999), e sul mistero trinitario in Contemplando la Trinità (2002). A tematiche antropologiche ed ecclesiologiche sono consacrati La vita in Cristo (1997), commento alla Lettera ai Romani (rielaborazione di La vita nella signoria di Cristo, 1986); Sorella morte (2001); Amare la Chiesa (2003), commento alla Lettera agli Efesini; il trittico sui consigli evangelici Verginità (1988, 19964), Povertà (1996, 19972), Obbedienza (1986, 19974). Il mistero della Madre del Signore è contemplato in Maria, uno specchio per la Chiesa (1989, 19974). Infine è un itinerario contemporaneo alla ricerca di Dio La salita al monte Sinai (1994, 19964).
Da predicatore apostolico, p. Raniero non ha trascurato di coltivare la dimensione speculativa della teologia(3), e ha lasciato un cospicuo spazio allo sviluppo della spiritualità francescana, come in Dalla croce la perfetta letizia (2001, con C.M. Martini)(4).
Costante è l’attenzione al dialogo con la contemporaneità della cultura laica, in vista dell’esistenza impegnata del cristiano. Ne sono documento volumi più antichi e scientifici, come Il Cristianesimo e le filosofie (1971), Cristianesimo e valori terreni (1976, 19782), Laicità nella Chiesa (1977), sino ai più recenti e divulgativi, come «Caro padre»…Lettere e testimonianze di vita (2003).
Abbiamo incontrato padre Raniero Cantalamessa sabato 5 febbraio 2005 nella sua camera presso la nostra Curia generale, e gli abbiamo chiesto di dialogare su alcuni tempi centrali del suo itinerario.
Nel 2004 si sono compiuti 25 anni di esercizio del ministero di predicatore apostolico. Ci descrivi il valore di un’esperienza così ampia e intensa?
Questa attività consiste nel predicare una meditazione alla settimana, il venerdì alle nove, in quaresima e in avvento, alla Casa pontificia, cioè al papa e ai suoi stretti collaboratori, coloro che formano la «famiglia» pontificia; e poi alla Cappella papale, cioè i cardinali, i vescovi prelati che lavorano in curia. Da qualche tempo, nel pubblico c’è anche qualche donna. Sino a qualche anno fa, le donne erano assenti, ma dopo che il papa pubblicò la Mulieris dignitatem, gli scrissi che un piccolo segno efficace poteva esser quello di ammettere qualche donna anche alla predicazione in Vaticano. Il papa mi ha fatto subito rispondere dalla Segreteria di Stato che era d’accordo, e quindi a partire da qualche anno anche alcune suore o laiche che lavorano in Vaticano sono presenti.
Quest’ufficio è antichissimo. Fino al Settecento era esercitato alternativamente da diversi Ordini religiosi, poi papa Benedetto XIV fece una ripartizione degli uffici della curia. Il predicatore pontificio fu affidato all’Ordine Cappuccino, il teologo all’Ordine domenicano, il sacrista all’Ordine agostiniano, e via dicendo. È interessante la motivazione che il papa indicava nella lettera con cui diede ai Cappuccini questo compito, che non so se oggi è ancora attuale… Definiva l’Ordine cappuccino il miglior esemplare di perfezione evangelica rimasto nel mondo. Beati quei tempi!…
Non è l’unica forma di predicazione che si attua in Vaticano, perché – come si sa – il papa fa anche gli esercizi spirituali ogni anno nella prima settimana di quaresima.
La cosa sorprendente è che il papa, ch’è maestro di tutta la Chiesa cattolica, trova il tempo di venire ad ascoltare la parola di un sacerdote semplicissimo, e non manca mai! A volte io stesso dopo la predica ho sentito il bisogno di esprimergli questo sentimento. Quando il papa mi ringraziava per la predica, replicavo: «È lei che fa la predica a noi, Santità, perchéci dà l’esempio di umiltà, di rispetto, di stima per la Parola di Dio».
Qual è la tua esperienza personale di Giovanni Paolo II? Qual è il solco tracciato da questo pontificato nella storia della Chiesa e del mondo?
La domanda sulla traccia di questo pontificato credo dovremmo lasciarla sospesa, perché non è agevole dare una valutazione su un pontificato come quello di Giovanni Paolo II. Occorrerà tempo, come occorre distanza per misurare una montagna.
Però posso dire l’impressione che ha fatto a me: è quella di una personalità certamente eccezionale che colpisce da un lato per un forte senso di apertura al mondo, per cui si trova a suo agio sulla scena del mondo. Dall’altro lato, colpisce per un’interiorità che è percepibile: sembra sempre in dialogo con una realtà invisibile agli altri. È il segno di una grande personalità.
Inoltre, san Gregorio Magno diceva che un segno delle grandi personalità è quello di riuscire ad occuparsi dei problemi degli altri anche quando si è personalmente nella prova, nella difficoltà, nella malattia. Ebbene, questo papa ha dato dimostrazione di tale grandezza.
Poi mi ha impressionato sempre la grande sobrietà di questo papa. Cosa intendo dire? Anche nei momenti in cui, come quando – pure per suo influsso – cadevano i regimi comunisti dell’Est, in un momento in cui il suo nome era sulle pagine di tutti i giornali, mai ho visto in lui un minimo segno di compiacenza o di ebbrezza per il successo, cose che sono normalissime tra gli uomini. E qualche volta che, indirettamente, ho fatto qualche accenno in proposito, ha sempre schivato il discorso, dicendo: «È tutta grazia di Dio. È tutta grazia di Dio…».
Ogni sabato sera tieni su Rai Uno la rubrica «A sua immagine. Le ragioni della speranza», che registra altissimi indici di ascolto e di gradimento. Come si svolge questa attività nel mondo della televisione? E, nel segno di padre Mariano da Torino, quale può essere oggi lo spazio dei Cappuccini nei mass media e nella cultura popolare?
È dal 1995 che, con due intervalli di un anno, ho esercitato questo ministero, ma già prima avevo predicato in televisione per periodi più brevi. Si tratta di un ministero assolutamente unico. Io direi che se dovessi rinunciare – come presto o tardi arriverà – ad alcuni tra i tanti impegni, questo dovrebbe essere l’ultimo da abbandonare, anche per un specifica insistenza del ministro generale. Il motivo è che con esso si arriva a moltissime persone a cui non si arriva con altri mezzi di pastorale: i lontani. Un annuncio che raggiunge milioni di persone, e forse nel corso dell’anno molte ancora di più, è oggi, con la diradazione della frequenza alla chiesa, un fatto straordinario. Non è questo un rilievo che si fa in astratto. Ho visto in questi anni qual è la risposta dalle lettere, dalle e-mail, dagli incontri personali che faccio nelle strade. E ho visto anche che questa presa è dovuta alla forza intrinseca della Parola di Dio. Non ricordano il personaggio, come avviene per altri spettacoli: ricordano il contenuto, la Parola che ha cambiato la loro vita. Ho la prova che anche molti non credenti seguono il programma. Ce n’è uno in particolare, un direttore di scuola, che mi scrive dopo quasi ogni trasmissione. Non è d’accordo pressoché su nulla, però vede la trasmissione, e non ne perde una. Credo che questo sia un segno straordinario.
Quanto a che cosa può significare una presenza cappuccina nel mondo delle comunicazioni sociali, abbiamo l’esperienza del padre Mariano, e oltre me, vi sono anche tanti altri casi. Questo sta ad indicare che la figura del cappuccino ha una presa straordinaria sulla gente, per l’abito, per il modo in cui ci si presenta, per la storia che abbiamo alle spalle, per una vicinanza al popolo che Manzoni ha messo in letteratura e tuttavia sappiamo essere non solo letteratura ma storia. Quindi credo che la figura del cappuccino goda una particolare simpatia, una particolare corrispondenza con l’animo popolare, specialmente in Italia. L’abito certamente è un fattore non trascurabile di questa alleanza tra il cappuccino e il popolo, perché ricorda Francesco, e la nostra forza non viene da noi, viene da Francesco. Direi che se dovessimo fare una percentuale in profondità della popolarità di cui godono i francescani oggi, l’ottanta o il novanta per cento andrebbe a san Francesco.
Sino al 1979 sei stato professore ordinario di Storia delle origini cristiane e direttore del Dipartimento di scienze religiose dell’Università Cattolica. Quali sono i Padri più significativi nella tua formazione e nella tua opera di ricercatore e docente?
La docenza è stata un’esperienza che ho lasciato con serenità, direi con gioia, ma non disprezzando, quasi scuotendo la polvere dai piedi… Tutt’altro, anzi ai giovani io dico che, a meno di una chiamata specifica, non lascino la ricerca in Università, che è una cosa necessaria. Credo che però a me il Signore abbia chiesto una cosa diversa, e quindi ho fatto questa scelta, che però non è una squalifica della cultura, tutt’altro. Quegli anni sono stati per me preziosissimi, come tutti gli anni di formazione, perché si sperimenta poi, nella predicazione e nel ministero, che tutto quello che uno ha immagazzinato nell’ambito teologico, biblico, anche letterario, diventa manna nell’annuncio, manna nel senso che permette di rivestire la Parola di Dio e farla giungere nei gangli dell’esistenza della gente, quindi dà concretezza alla Parola di Dio. Gesù ha dato l’esempio di questo: egli parlava con estrema aderenza a tutta la realtà umana. E così la formazione anche accademica mi ha aiutato in questo.
E poi soprattutto l’ambito della docenza. Io ho insegnato Storia delle origini cristiane, che è la disciplina che permette di occuparsi del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa. Benedico sempre quella mia scelta iniziale, ch’era dovuta ad un fatto contingente: a Friburgo mi stimava un professore che insegnava questa materia, e quindi volendo lavorare con lui ho scelto questo settore. È stata una benedizione, perché credo che una familiarità con i Padri della Chiesa è la via più sicura per accedere alla Bibbia, alla rivelazione, direttamente, ai contenuti veri, profondi, immortali della Bibbia. E del resto diceva Henri de Lubac che nessun rinnovamento nella storia della Chiesa è avvenuto senza un ritorno ai Padri. Ne abbiamo l’esperienza anche nel rinnovamento recente del Vaticano II, che è stato preparato da grandi teologi, come Daniélou, appunto de Lubac, lo stesso Congar, von Balthasar, i quali erano fondamentalmente dei patrologi.
Tra i Padri, dal punto di vista della ricerca, quello che con cui ho iniziato è stato Tertulliano, però poi ho spaziato anche con altri autori. Direi che in questo è stato soprattutto il nuovo ministero di predicazione che mi ha sciolto, mi ha in un certo senso dispensato dalla specializzazione, quindi mi ha aperto ai grandi uomini, alle grandi personalità, Agostino in primissimo luogo. Nei miei scritti è difficile che ci sia una pagina dove non ricorra una citazione di Agostino. Anche i Padri greci, però. Non uno in particolare, ma forse i tre grandi, Basilio, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno, e anche Origene. Li chiamo «i miei amici», persone a cui ricorro continuamente, e che danno un contributo essenziale a rendere la Parola di Dio viva, vera ed efficace.
Quali figure ricordi dell’Università Cattolica di quegli anni? In modo particolare, qual è stato il legame con Giuseppe Lazzati?
Io ho avuto la fortuna di conoscere Lazzati, ch’è stato mio maestro e di cui sono stato per breve tempo assistente e anche in parte successore nell’ufficio di direttore del Dipartimento di scienze religiose. Ho di quest’uomo una stima enorme. Adesso ne è in corso il processo di beatificazione, che è abbastanza avanzato. Lazzati mi colpiva per la sua linearità: è la figura ideale del laico cattolico, insieme a La Pira e Dossetti, con i quali del resto formavano un gruppo abbastanza unito, affiatato, e anche politicamente omogeneo. Di Lazzati io ricordo il suo amore alla Chiesa, la sua coerenza. Per altri impegni che gli hanno affidato in ambito politico, amministrativo e accademico, non ha potuto forse esprimere tutta la sua capacità nella patristica, però ha dato l’esempio di una ricerca che non è fine a se stessa, che dietro la sua prospettiva ha sempre la società, la cultura, la Chiesa. Certo l’amicizia di questa persona è stato un grande arricchimento. Quando ho dovuto lasciare la Cattolica, forse la persona a cui ho dato più dispiacere è stato lui, il quale qualche volta, anche scherzosamente, se ne lamentava, dicendo lo avevo «tradito». Ma è l’uomo che ho continuato a vedere anche dopo, in altra veste, e di cui ho raccolto le ultime parole sul letto di morte. Era un uomo che amava profondamente la Chiesa, e che anche ha sofferto per la Chiesa.
Accanto a lui ci sono state altre figure notevoli come Bontadini, la Vanni Rovighi, in letteratura Apollonio. Erano anni fecondi.
Il tuo impegno ecumenico è costante, e talvolta hai attinto alle opere di autori ortodossi e protestanti. Tuttavia l’ecumenismo sembra oggi attraversare una fase difficile. Quali passi sono i più urgenti da compiere in vista di una forte ripresa del cammino verso l’unità tra i cristiani?
Devo dire che mi sono convertito all’ecumenismo tardi, perché i nostri studi teologici di un tempo certamente non ci aiutavano in questo senso. Però, una certa esperienza, che mi ha portato poi a lasciare l’insegnamento e a darmi alla predicazione, mi ha condotto anche all’amicizia con i fratelli di altre confessioni cristiane. Per circa tredici anni sono stato membro della delegazione cattolica per il dialogo con le Chiese pentecostali, e quindi ho iniziato una serie di rapporti, che hanno creato un’amicizia profonda a livello potrei dire mondiale. Difatti sono stato invitato a predicare un ritiro a settanta pastori luterani in Svezia, ad una comunità anglicana di Londra. Alcuni miei libri sono stati pubblicati da case editrici protestanti, come La vita in Cristo in Danimarca e in Sudafrica.
Credo che ci siano due tipi di ecumenismo. C’è un ecumenismo dottrinale, quello che si svolge intorno a dei tavoli, con delegazioni e documenti, ch’è necessarissimo, indispensabile, ma ha un suo ritmo, ed è forse questo che soffre nel momento presente la stasi maggiore. C’è poi un altro ecumenismo, a livello capillare, popolare, che dipende molto dai rapporti interpersonali. Questo io credo che non ha subito un grande crollo. Forse le due cose devono andare insieme ma, come più volte è stato detto, sarà la carità che porterà alla verità, non viceversa, perché le discussioni portano sempre a dividersi, mentre pregando insieme e annunciando insieme la Parola di Dio ci si avvicina. Per cui credo che il programma del papa, di cercare di insistere più sulle cose che uniscono anziché su quelle che dividono, sia la linea maestra da seguire.
Costante è la tua sensibilità per l’incontro con l’ebraismo, e spesso affronti il problema del dialogo interreligioso. In che cosa si può ravvisare il dono specifico del francescanesimo nell’incontro con le altre religioni?
Anche nei confronti dell’ebraismo devo dire che ho subito una conversione, ed è stato proprio in occasione di un viaggio in Terra Santa che mi è apparso chiaro che l’amore per Cristo comporta anche una solidarietà, uno speciale vincolo con il popolo di Israele, quello della sua razza. Ho avuto occasione in seguito, durante prediche in San Pietro, il venerdì santo soprattutto, di indicare qual è stato secondo me il punto di svolta, quello che purtroppo ha incrinato i rapporti tra la Chiesa ed Israele, quindi qual è il cammino da fare per ripristinare questi rapporti. L’idea fondamentale che ho svolto è che l’antisemitismo non è negli scritti nel Nuovo Testamento, in Gesù, negli apostoli. Questi erano ebrei, parlavano dall’interno del popolo, con un amore profondo al popolo. Parlavano il linguaggio di Mosè, dei profeti, i quali alle volte sono più veementi che non Gesù negli attacchi al popolo. Parlavano però dall’interno, con un amore profondo. Paolo può dire che è pronto ad essere anche lui separato da Cristo per il popolo ebraico. È successo che nel passare dalla Chiesa giudeocristiana a quella dei gentili è continuata la polemica, però non è passato l’amore, la solidarietà con Israele, e questo ha creato tutta una nuova mentalità, che sicuramente, in maniera indiretta non diretta, ha favorito fenomeni di antisemitismo che conosciamo nella storia.
Questo rapporto si estende poi anche all’incontro con altre religioni. Predicando al papa per venticinque anni, sono stato costretto a toccare un po’ tutti i problemi che di volta in volta appassionavano la discussione all’interno della Chiesa, e quindi questo è stato uno di quelli. Il mio punto di vista direi che è intransigente per quanto riguarda la persona di Cristo, e adattabile, dialogabile per quanto riguarda tutto il resto, cioè i cristiani, la Chiesa, la storia, perché su questo effettivamente non abbiamo la coscienza pulita. Però sono del parere che Gesù Cristo non si tocca. Il suo significato universale di salvezza è irrinunciabile per un cristiano perché, caduto questo, dovremmo anche dire che cade la nostra fede nella divinità di Cristo, e quindi per riflesso la Trinità, e si scompagina tutta la nostra visione. Credo però che difendere questo non sia un atto di arroganza o di ostilità nei confronti delle altre religioni, supposto che lasciamo anche alle altre religioni di credere altrettanto, se è nella logica della loro fede. Non è arroganza, anzi è un onore che, se noi crediamo che veramente Gesù Cristo è Figlio di Dio, riconoscergli un significato per tutto il mondo non è imperialismo ma è doveroso.
In questo il francescanesimo ha un posto speciale. Francesco d’Assisi ha realmente precorso i tempi. L’unico santo che è riuscito a staccarsi dai condizionamenti del suo tempo, uno dei pochi santi che non si è lasciato ingaggiare in nessuna guerra santa, ma è andato in Oriente non per fare crociate e combattere ma per incontrare il sultano. Del resto, si vede in tutti i suoi scritti che Francesco non è contro nessuno, se non contro se stesso, e quindi invita semmai i suoi frati ad essere contro se stessi, contro nessun altro. Questo è un unicum nella storia, che ancora oggi si conserva. Difatti se il papa ha scelto Assisi come luogo di incontro delle varie religioni, è per questo motivo. E se tutto il mondo, senza distinzioni di religioni, guarda a Francesco come l’uomo universale, ciò ha un significato. Certo non è un onore per noi, è una responsabilità, perché ci invita a presentare nel mondo d’oggi questo stesso tipo di approccio, che non è di dominio né di conquista, ma di offerta delle proprie certezze, del proprio dono.
In particolare, vi è una convergenza tra francescanesimo e buddhismo nell’amore per le creature. Si sa che il buddhismo ha una sensibilità per tutti gli esseri animati. In ciò sono gemelli Francesco e Buddha, perché anche Francesco nutriva va un estremo rispetto della vita, e non voleva schiacciare neppure un verme sulla strada.
Si potrebbe anche citare l’induismo di Gandhi. C’è certamente un’affinità tra Francesco e Gandhi nel modo povero, umile, semplice di porsi, anche nell’aspetto esterno, forse persino nella struttura corporea, perché le due figure dovevano assomigliarsi straordinariamente fra di loro.
Dal 1975 al 1981 sei stato membro della Commissione Teologica Internazionale, che in quegli anni ha prodotto importanti documenti. Come ricordi questa esperienza di collaborazione? Quali sono i temi nei quali è più urgente l’approfondimento da parte della teologia cattolica?
È stata un’esperienza estremamente arricchente. Vi ho partecipato direttamente con una relazione al documento sulla cristologia, con una contributo sulla divinità di Cristo alle origini del cristianesimo. Importante è stato il contatto che ho potuto stabilire con uomini come von Balthasar, Congar, Tillard ed altri teologi illustri che in quegli anni partecipavano alla Commissione. È stato veramente un dono grande del Signore essere con trenta colleghi di tale statura durante incontri di una settimana intera.
Se devo fare un rilievo, mi sembra questo. Tale Commissione fu suggerita al papa da uno dei primi Sinodi dei vescovi e voluta da Paolo VI per dare alla teologia cattolica un ascolto più pluralistico dentro e intorno al Vaticano, e quindi affinché la teologia vi fosse rappresentata con le sue varie correnti del mondo. Devo dire che forse da questo punto di vista non ha esaurito tutte le sue potenzialità, perché via via si è andata sempre restringendo ad una direzione, ad una corrente all’interno della Chiesa. Questo, se può darsi abbia assicurato una certa congruenza a questi documenti nonché una certa incisività, perché essi erano in partenza abbastanza omogenei nelle voci, però ha privato – secondo me – di una ricchezza, in quanto molte tendenze non si sono sentite rappresentate in Vaticano. Il compito futuro della Commissione può essere allora quello istituzionale originario, cioè quello di dare a tale Commissione – pur, s’intende, nella fedeltà al magistero – un carattere il più possibile rappresentativo, in modo che possa, senza valore magisteriale in quanto è un organo consultivo, far giungere al centro della Chiesa più voci dalla Chiesa stessa.
Tra gli obbiettivi prossimi della teologia, quello del dialogo interreligioso certamente continuerà per parecchio tempo, se anche piuttosto non aumenterà d’importanza nella Chiesa. Poi per la teologia di domani ci sono i compiti di sempre, quelli ineludibili con i quali sta e cade la vivacità del cristianesimo, che si incentrano sulla persona di Gesù Cristo. Riuscire a presentare un Gesù Cristo vivo, vero, che risponde ai bisogni degli uomini di ogni epoca, questo è il primo compito di sempre della teologia.
Nel corrente anno dell’eucaristia, mi sto occupando nelle mie meditazioni al papa di questo problema, e vedo come anche qui occorra veramente un coraggio per mantenere le conquiste del passato, ma liberare questo sacramento da tutta una serie di ipoteche che le controversie hanno messo su di esso, da rivestimenti di linguaggio che forse non lo rendono immediatamente percepibile, intelligibile all’uomo di oggi. Bisognerebbe anche qui avere il coraggio di tornare ai Padri, perché i Padri avevano quello che de Lubac chiama un «simbolismo ontologico», cioè un simbolismo non puramente virtuale ma reale, ch’è simbolismo e realtà insieme. La stagione aristotelico-scolastica è stata certamente un’inculturazione provvidenziale, efficacissima, brillantissima per quei tempi in cui si parlava un linguaggio aristotelico, ontologico. Io continuo a domandarmi come si può oggi far rendere intelligibile l’eucaristia con il linguaggio della sostanza e degli accidenti, anche perché il concetto di sostanza ha subito un’evoluzione straordinaria nella scienza e nel linguaggio di oggi. Mi auguro che il sinodo dei vescovi su questo possa aprire delle strade. Io, nel mio piccolo, in queste meditazioni al papa mi sono proposto proprio di lanciare questo, e vedo che è stato recepito. Il papa mi ha chiesto i testi dopo le meditazioni dell’avvento, quindi vuol dire che c’è un’apertura e una preparazione in questo senso.
Il nome di san Bonaventura ricorre volentieri nei tuoi contributi. Qual è l’apporto perenne della teologia francescana classica? E quali sono le coordinate in cui deve inserirsi oggi il modo francescano di fare teologia?
Al proposito devo esprimere un rincrescimento, quello – per la mia preparazione – di non avere dato alla teologia francescana tutto quel rilievo che forse sarebbe stato doveroso. Ma, per quanto ho potuto recuperare dopo che ho aperto il mio orizzonte oltre la patristica, certamente san Bonaventura è stato un punto fisso perché nella traiettoria da Agostino ai nostri giorni, san Bernardo e san Bonaventura costituiscono della arcate inevitabili. Questa è la linea che corrisponde di più al mio spirito: la linea agostiniana, bonaventuriana, pascaliana se si vuole, oggi kierkegaardiana. Ripeto però che se ho un rimpianto è di non aver potuto approfondire troppo. È significativo come molti grandi teologi di oggi, come anche Ratzinger, siano partiti proprio dallo studio di san Bonaventura, perché c’è indubbiamente una modernità in questo pensiero, caratterizzato in senso più esistenziale. Per quanto anche san Bonaventura si muova in un contesto scolastico, egli ha un afflato per così pire platonico più corposo, più esistenziale. C’è dunque da incoraggiare il suo studio, non per contrapporlo, come alle volte si faceva nel passato tra scotisti e tomisti, ma per arricchire, per prendere dall’altra prospettiva, sapendo sempre che il mistero cristiano è inesauribile, sempre al di là di ogni formulazione. Non si può giungere – diceva un autore antico – ad un mistero così grande attraverso una sola via.
Quanto ad un modo francescano di fare oggi teologia, è difficile dare una risposta, perché l’orientamento teologico dipende molto anche dall’indole personale del soggetto. L’Ordine francescano è famoso per lasciare ad ogni individuo un grande spazio di libertà, non rende tutti uniformi ed omogenei. Quindi certamente bisogna lasciare ai singoli ricercatori una libertà che corrisponde alla loro formazione. Ciò precisato, direi che dovremmo attingere dalla linfa fondamentale del nostro carisma, come san Bonaventura ha saputo interpretare Francesco in quel momento, mantenendo la scelta di povertà, di minorità, di umiltà, di «unzione». In tale unzione egli individua lo specifico francescano, in opposto alla teologia dei domenicani, il cui specifico è la speculazione. Bonaventura afferma che i francescani si dedicano primariamente all’unzione e secondariamente alla speculazione, e viceversa i domenicani si dedicano primariamente alla speculazione. Anche oggi una teologia francescana dovrebbe caratterizzarsi per questo senso di unzione spirituale. Ciò significa un contatto vivo con lo Spirito Santo, perché l’unzione non è un’espressione vaga o poetica, ma è un dono dello Spirito. Quella francescana dovrebbe essere una teologia aperta al movimento in atto nella Chiesa di riscoperta dello Spirito Santo, di una nuova Pentecoste. Sono convintissimo, per la mia esperienza, che una teologia non animata dallo Spirito santo è una teologia che non edifica nella Chiesa, ma produce solo discussioni e litigi tra scuole. La teologia vera – ce lo dice Paolo – è quella che si fa nello Spirito, e noi viviamo in un’epoca caratterizzata da un fenomeno vastissimo di rinnovamento nello Spirito e di spirito pentecostale. Basti dire che il fenomeno più in ascesa nella Chiesa sono le Chiese pentecostali, ed un teologo che non appartiene a questo movimento ha detto che questo è il più grande movimento di rinnovamento nella storia, perché in un secolo è passato da zero a cinquecento o seicento milioni di persone. In questo contesto sarebbe strano se l’Ordine francescano rimanesse invece estraneo. È stato detto – non da un francescano – che Francesco è l’uomo più carismatico che sia vissuto nella storia della Chiesa. Sarebbe quindi fedeltà a tale carisma, per noi oggi, riuscire a fare un tipo di teologia che sia – diciamolo francamente – lontano da quell’atmosfera rarefatta ed asettica, che la teologia ha spesso rivestito nelle accademie, soprattutto dove la teologia è insegnata accanto ad altre discipline secolari e vi è quindi un’eterna rincorsa reciproca a chi è più scienza dell’altra.
Sovente dichiari di avere tre amici: un amico filosofo, Kierkegaard; un amico poeta, Péguy; un’amica mistica, Angela da Foligno. Che cosa di proprio ti colpisce in queste tre figure? Qual è l’apporto specifico, che possono offrire alla spiritualità del nostro tempo?
Kierkegaard mi ha interessato da quando ho incominciato ad avere interessi più ampi della patristica, perché mi sembra la dimostrazione che non c’è opposizione tra cristianesimo e pensiero moderno, in quanto se c’è un pensatore moderno, è proprio Kierkegaard, da cui è nato l’esistenzialismo. E pure, se c’è un credente commovente, uno che ha creduto sino in fondo, e sino in fondo ha difeso le ragioni della fede, è stato lui. Credo che quest’uomo abbia un modo di esprimersi che permette agli annunciatori della Parola di Dio di penetrare nei gangli dell’uomo moderno, dell’esistenza moderna, in forza della sua insistenza sull’individuo e sulla storia. Poi bisogna dire che è un genio, e quindi ha dei lampi di verità in cui ci si può riconoscere, e danno efficacia nel proclamare la Parola. È un pensatore sullo stile di Platone, non astratto ma concreto. È un poeta. A me commuove soprattutto per il suo amore a Gesù Cristo: è un innamorato di Gesù. Se fosse cattolico, qualche volta mi dico che inizierei io il processo della sua beatificazione.
Quanto a Péguy dovrei dire di nuovo la stessa cosa. Anche nelle meditazioni che sto svolgendo adesso presso la Casa pontificia, la sua voce mi è di straordinario aiuto, perché credo che questo poeta vada messo vicino a Dante, sebbene non sullo stesso piano. È un poeta che ha cantato le verità cattoliche con un’aderenza straordinaria, con una concretezza straordinaria, ma anche con un afflato poetico unico. Certi misteri della fede della Chiesa si possono esprimere teoricamente, ma scivolano via. Se invece le dici con un’immagine di Péguy, sei sicuro che a distanza di tempo te la ripetono, come succede a me quando parlo della speranza, e la gente mi cita l’immagine delle tre sorelle, la più piccola delle quali conduce le due più grandi che la tengono per mano. Di questo non sono, però, convinto solo io. Balthasar, nel volume terzo di Gloria, quello in cui si occupa degli Stili laicali, dedica lo spazio maggiore appunto a Péguy, perché da teologo si è reso conto che quest’uomo ha un’importanza unica nell’ambito del rapporto tra il cristianesimo ed una visione poetica del mondo.
Angela da Foligno è una donna da vertigini. La prima volta che ho avuto occasione di conoscere il suo Libro, sono rimasto folgorato e mi son detto: «I teologi oggi scrivono libri di centinaia di pagine domandandosi se esiste Dio (come quello, che allora era in auge, di Hans Küng), e alla fine il punto interrogativo è ancora lì, mentre dopo aver letto una sola pagina di questa donna, si chiude il libro e si riconosce che Dio esiste, ma è fuoco divorante!». Uno studioso domenicano di mistica ha detto che Angela da Foligno è per la mistica quello che Dante Alighieri è per la poesia, cioè uno dei vertici assoluti. Dà il senso del mistero di Dio, della trascendenza, quel senso di un altro mondo, che solo i mistici riescono a dare. Oggi abbiamo un’estremo bisogno della prospettiva mistica, perché l’uomo d’oggi non si convince per i ragionamenti. Viviamo nel tempo del «pensiero debole», non sarà il pensiero a convincere. Ma quando l’uomo si pone davanti ad esperienze così coerenti e convincenti del divino, è difficile sottrarsi. Angela da Foligno è infatti all’origine di alcune tra le conversioni più celebri del secolo scorso: Claudel, Bloy, e si potrebbe allungare la lista.
Certamente Kierkegaard, Péguy e Angela da Foligno non sono unici nel mio orizzonte, in cui potrei inserire altri mistici o filosofi, come Caterina da Siena o Pascal, e tuttavia, non so per quale convergenza e simpatia, queste tre personalità mi sono congeniali. I loro libri, accanto a quelli della Bibbia, sono quelli che consulto più spesso.
Talvolta le tue prediche si confrontano con i maestri dell’ateismo del Novecento: Marx, Freud, Nietzsche, Sartre. Quali sono – a tuo parere – le luci e le ombre della cultura contemporanea? Quali gli ambiti per il dialogo tra fede e cultura?
È un problema difficile, sul quale credo di non essere in grado di dare una risposta adeguata. Il mio giudizio sul pensiero moderno, devo dire, non è positivo. Forse la nostra epoca sarà ricordata in maniera eccellente soprattutto per la tecnica, non per il pensiero né per l’arte. Per me, questa sorta di infatuazione ad esempio per Nietzsche rimane un mistero. Sono d’accordo con René Girard, quando tratta da irresponsabili quelli che con tanta leggerezza continuano a parlare di quest’uomo come di un profeta. Non vedo come dei cristiani possano essere tanto sicuri e tranquilli nell’accettare tale pensiero, se si conosce tutto ciò che vi sta sullo sfondo. Che poi abbia un suo valore, negativo per me, di aver messo in luce il fondo nichilistico della cultura di oggi, vi si può convenire; ma è un valore, appunto, in senso negativo. Certo i tre «maestri del sospetto» del Novecento hanno aiutato la teologia, dandole stimoli e costringendola a porsi dei problemi che forse non si sarebbe mai posta, ma l’effetto sulla cultura di fuori è tremendo. L’uomo d’oggi ragiona non tanto più con Marx, ma certamente ancora con Freud e con Nietzsche e i loro seguaci. Ciò crea una specie di impermeabilità al messaggio evangelico. Ci sono due tipi di ostacoli grossi, a mio parere. Un filone che è l’erede del positivismo e del modernismo, per cui niente è storico rispetto a Gesù Cristo, come Renan e Loisy. Alcuni dei casi di tipi di ateismo moderno sono di questo filone storico. Vi è poi l’altro filone, costituito appunto dagli eredi dei maestri del sospetto. Se si vede l’immagine del mondo che viene data dai settimanali di attualità e cultura, si dà come dogma il pensiero di Freud e di Nietzsche, molte volte con la chiara percezione che le persone non sanno che cosa c’è dietro, e si ripetono sempre degli stereotipi. Come nel Medioevo si usava l’ipse dixit per Aristotele, oggi si fa lo stesso per Freud. Peraltro, alcuni studiosi, come appunto René Girard, hanno smantellato molti presupposti fondamentali di questa prospettiva. Che poi abbiano un valore indiscusso nell’ambito della loro disciplina, è vero. Ma quando hanno estrapolato dalla loro disciplina alcuni elementi per dare una visione globale del mondo, in realtà hanno reso un cattivo servizio.
Nei tuoi interventi, hai citato Fabrizio De Andrè, John Lennon, gli spirituals afroamericani, Ludvig van Beethoven. Si ascoltano poi i nomi di Leopardi, Claudel, Dostoevskij, Kafka. E non disdegni di ricorrere a fiabe e parabole moderne. Qual è il tuo rapporto con il mondo della cultura extrateologica?
Credo che sia un dovere, per chi annuncia il Vangelo, raccogliere queste voci vere, autentiche, perché sono quelle che parlano all’uomo. Dobbiamo quindi ascoltare tali voci, non per strumentalizzarle, ma compiendo il loro significato, perché se è vero che tutto converge al cristianesimo (era un’idea di Péguy), dobbiamo dire che questi autori non raggiungono mai il loro scopo come quando servono da veicolo e mediazione per accedere ad un mondo, che essi non potevano da sé teorizzare o annunciare.
Tali voci sono poi di utilità per un altro verso, non solo da un lato per così dire apologetico, ma perché queste voci di poeti e musicisti hanno una presa sull’animo della gente, danno alla predicazione unzione e capacità di penetrazione. Per quanto riguarda la musica moderna, ad esempio quando ho impiegato la canzone Imagine di Lennon, dobbiamo tener conto che i cantautori moderni sono i veri maestri dei giovani. Platone diceva che agli anziani parlano i filosofi, e ai giovani parlano i poeti. Oggi ai giovani parlano i cantautori, che infatti sono quelli che riuniscono mezzo milione di persone per un concerto. Non possiamo lasciare alcuna di queste voci senza un esame, perché alcune contengono dei messaggi tremendi e, pur senza squalificarli perché non è possibile dissacrare gl’idoli dei giovani, tuttavia si può aiutare a vedere che cosa c’è dietro la famosa canzone di John Lennon, cioè una visione appiattita della realtà dove non ci sono più religioni né ideologie. Sembra che questo sia il mondo ideale, in cui gli uomini vivono in pace, ma giustamente è stato messo in rilievo che questo è il mondo più tremendo che si possa immaginare, un mondo appiattito, in cui non ci sono più differenze. Allorché in una predica il venerdì santo in san Pietro ho citato questa canzone, facendo un po’ di scalpore, avevo proprio lo scopo che questo inno al pacifismo mostrasse il suo retroterra.
Oltre a quello di Sigmund Freud, nei tuoi interventi si incontrano i nomi di Carl Gustav Jung e (almeno per allusione) quello di James Hillmann. Quali sono i pericoli e quali gli apporti positivi dell’incontro tra le moderne antropologie psicologiche e la vita religiosa?
La psicologia è una delle grandi passioni dell’uomo moderno. Ciò che una volta era della metafisica, oggi è della psicologia. Vi sono certamente novità da accogliere con gratitudine, però non si può negare che una certa psicologia, non tutta, porta a delle conclusioni spaventose: non esiste distinzione tra bene e male, tra Dio e satana. La psicologia ha oggi una presa fortissima, per cui oggi tutto ciò che dice uno psicologo è oro colato. E anche Jung, che a molti cristiani sembra un alleato, io inviterei a vedere che cosa c’è dietro, perché è proprio Jung che orienta in questa visione in cui bene e male, Dio e satana non sono adeguatamente distinti. Alcuni epigoni del suo pensiero lo hanno poi portato all’estremo, sostenendo che la distinzione tra bene e male è una perversa invenzione del mondo giudaico e cristiano. Anche qui si tratta non di fare opera polemica bensì di dialogare con tali espressioni della cultura moderna, ma alla luce del Vangelo, forti delle convinzioni che ci vengono dalla fede, e aiutando a individuare anche i limiti di tali culture.
Più volte hai tenuto insegnamenti alle convocazioni del Rinnovamento nello Spirito. Qual è il tuo legame con questo movimento ecclesiale? E, più in generale, in che termini pensi possa configurarsi il rapporto tra i religiosi e i movimenti ecclesiali?
All’esperienza dello Spirito Santo fatta all’interno del Rinnovamento nello Spirito io devo molto. Se sono oggi, e da venticinque anni, predicatore apostolico, forse lo devo anche a questo. Ai miei occhi, dopo la professione religiosa, questa è stata la grande novità della mia vita. Ma non tanto il movimento ecclesiale, quanto il suo contenuto, che è un contenuto non legato ad un movimento bensì al rendersi conto che il cristianesimo va vissuto nello Spirito. Gesù stesso l’ha detto chiaramente che lo Spirito avrebbe condotto i credenti alla verità. In seguito ho avuto occasione, e ancora oggi, di parlare agli incontri nazionali ed internazionali del Rinnovamento, ma senza legarmi, perché peraltro stimo tantissimo anche altri movimenti ecclesiali di oggi.
Riguardo al problema del rapporto tra religiosi e movimenti ecclesiali, ho avuto modo di parlarne in Assisi nella XLIV Assemblea generale della CISM. Personalmente non ho incontrato un conflitto, nel senso che ho condiviso quest’esperienza con i superiori, e i superiori mi hanno sempre incoraggiato. Mi rendo però conto che in alcuni casi il conflitto sorge, e la ragione può essere duplice. Può venire dal soggetto, che non riesce a vivere l’esperienza di rinnovamento che ha incontrato in un movimento ecclesiale nello stile della sua comunità, così che non ne fa una ricchezza per tutta la comunità ma un pretesto per criticare o per alienarsi dalla comunità. La difficoltà può però provenire anche da parte della comunità, che per principio squalifica questi movimenti, e dice che non sono fatti per i religiosi. Ciò crea alle volte un dissidio, perché la persona si rende conto di essere stata veramente rinnovata dal contatto con la spiritualità di questi movimenti. Quando parlo ai rappresentanti degli Ordini tradizionali, di solito faccio presente che allorché è nato il francescanesimo, è avvenuta la stessa cosa. Infatti l’ondata di evangelismo introdotta da Francesco è ridondata sugli altri Ordini, che hanno sentito il bisogno di interrogarsi, come i Benedettini quand’è avvenuta la nascita dei Cistercensi con san Bernardo. Lo stesso accade oggi. La nascita di nuove forze nella Chiesa, quella che il papa chiama una nuova primavera», non è semplicemente l’aggiungersi di nuove istituzioni ad altre istituzioni. È una ventata che in forme diverse deve investire tutta la Chiesa. Per me chi ha perfettamente colto questo e non si è stancato mai di ripeterlo, è stato il papa, a partire da Paolo VI, che aveva detto che il Rinnovamento è una chance per la Chiesa, fino a Giovanni Paolo II, che addita i segni di una nuova primavera della Chiesa. C’è una certa refrattarietà nel clero, invece, ad accettare questi movimenti, che non sono un fatto per così dire indolore, nel senso che una novità di questo tipo rompe tanti schemi e tante forme tradizionali di esprimere la fede o la preghiera. Ma anche la nascita degli Ordini mendicanti comportò conflitti nella Chiesa. La soluzione non è di chiudersi in compartimenti stagno, ma di lavorare insieme, cercando di mantenere ognuno il proprio carisma.
Il VII Consiglio Plenario dell’Ordine si è soffermato sulla minorità e l’itineranza nella vocazione della nostra fraternità. Qual è a tuo giudizio l’apporto peculiare che i Cappuccini sono chiamati a dare oggi nella Chiesa, e alla missione della Chiesa nel mondo?
Ciò che i Cappuccini sono chiamati a dare oggi è, forse, quello che essi hanno saputo dare di meglio nella loro storia, cioè una vicinanza al popolo, che non sia una vicinanza solo geografica o anche una vicinanza negativa, nel senso di confondersi col popolo anziché elevare il popolo. E poi credo che i Cappuccini debbano dare una testimonianza di Vangelo. La Chiesa ha bisogno di testimoni del Vangelo, diceva Paolo VI, i quali sono gli unici credibili, più che i maestri. E nella misura in cui i Cappuccini sono stati sempre nella storia più testimoni che maestri, dobbiamo dirlo, perché il nostro carisma non sono le università e le accademie, io credo che dobbiamo rispondere proprio a questo appello ad essere testimoni del Vangelo nel mondo di oggi. Il vangelo è il valore supremo. Il cristianesimo è lì. Non c’è da ritagliarsi un piccolo ambito: questo è un grande ambito. Poi ogni cappuccino darà testimonianza del Vangelo nel settore in cui Dio l’ha posto: il predicatore popolare del Vangelo nelle missioni, il cappellano accanto ai malati, e anche lo studioso per il suo verso. ma in tutti dovrebbe risplendere questa qualità evangelica di Francesco d’Assisi, che ha imposto il nostro Ordine al mondo.
Per concludere, ci offri una riflessione personale sulla tua persona?
Io ho una sorella sposata con figli, mentre alcuni fratelli ed una sorella sono morti da piccoli. La famiglia certamente è un valore forse non quantificabile, ma fondamentale nella mia vita come in quella di ogni persona.
Il Signore mi ha chiamato molto presto. La mia vocazione è nata all’età di tredici anni nel primo ritiro che facemmo in collegio nel 1946, subito dopo la guerra. È nata con una certezza che non è più vacillata, e mi sembra una grande grazia del Signore. Terminati gli studi in teologia sono stato mandato a Friburgo per la laurea in teologia e poi alla Cattolica di Milano per la laurea in lettere, per cui ho passato la stragrande maggioranza del mio tempo fuori dalla mia Provincia delle Marche, trentatrè anni a Milano e adesso sono da dieci anni a Roma in curia generale.
A livello personale, l’unica cosa che posso fare è donare un Te Deum di ringraziamento al Signore, perché tutto è grazia. L’esperienza della vita mi ha convinto soprattutto di una cosa, che il cristianesimo è grazia. Non mi stanco di ripeterlo: è grazia. Nei momenti fondamentali della vita ci si rende conto dell’intervento della grazia di Dio, per cui alla fine l’uomo non può che sciogliersi in quello che chiamo una commossa gratitudine a Dio, Padre, Figlio e Spirito santo.
Note
(1) Il titolo e l’ufficio del Predicatore apostolico risalgono a Paolo IV (1555-1559). Fino a questo tempo i Procuratori generali dei quattro Ordini mendicanti (Predicatori ossia Domenicani, Minori ossia Francescani, Eremitani di Sant’Agostino e Carmelitani) predicavano per turno nelle domeniche dell’avvento e della quaresima. Da Paolo IV in poi i predicatori apostolici furono stabili, scelti da diversi Ordini religiosi. Il papa Benedetto XIV, con il breve Inclytum Fratrum Minorum del 1743, riservò questa carica esclusivamente all’Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
(2) All’indirizzo www.cantalamessa.org, però non senza qualche inesattezza e lacuna. Nel sito si può anche rintracciare la lista delle numerose audiocassette e videocassette che riprendono prediche, insegnamenti ed esercizi spirituali. Il sito documenta l’attività di padre Raniero, e offre on line tutti i suoi più recenti interventi.
(3) Cf. ad esempio La fede in Gesù Cristo unico Salvatore, nel contesto del dialogo interreligioso odierno, in Rassegna di Teologia 35 (1994) 259-282; «Utriusque Spiritus». L’attuale dibattito teologico sullo Spirito Santo alla luce del «Veni creator», in Rassegna di teologia 4 (1997) 465-484.
(4) Cf. anche Francesco profeta per noi. VIII centenario della nascita di S. Francesco d’Assisi, Milano 1982; Lo stesso Altissimo mi rivelò…, in Con Francesco… Signore che vuoi che io faccia?, Assisi 1987, 25-43; Homilia de Jubilaeo Franciscano habita in Basilica Laterana, die 9 Aprilis 2000, in Analecta OFMCap 116 (2000) 25-31; Profezia e comunione, in Atti della XXV Assemblea dell’Unione Conferenze Ministri Provinciali Famiglie Francescane d’Italia, Carini 2002, 53-68.