Un evento di Festival della filosofia
Roma, Auditorium Parco della Musica
12 Maggio 2007
1. Gesú tra storia e storia
Io credo che prima dell’alternativa espressa nel titolo di questa tavola rotonda “Gesú tra storia e teologia”, ce ne sia un’altra di cui è necessario tener conto, e cioè “Gesú tra storia e storia”. L’idea di una ricerca storica su Gesú unitaria, rettilinea che procede inarrestabile verso una piena luce su di lui è un puro mito che oggi nessuno storico serio tenta più di avallare.
Lasciando da parte le variazioni diacroniche, cioè le ricostruzioni storiche della vicenda di Gesú succedutesi l’una all’altra negli ultimi due secoli, mi soffermo un istante sulle variazioni sincroniche, cioè esistenti su di lui in una stessa epoca, la nostra.
Cito una fonte insospettabile, la Professoressa Paula Fredriksen che abbiamo l’onore di avere tra noi in questa tavola rotonda. Nella nuova introduzione scritta per il suo libro: From Jesus to Christ. The Origins of the New Testament Images of Jesus (2nd edition Yale University Press, 2000), ella scrive: “I libri si moltiplicano a misura che lo spettro dei ritratti di Gesù si dilata. Nella ricerca scientifica recente Gesú è stato presentato come una figura di sciamano del primo secolo, come un itinerante filosofo cinico, come un visionario radicale e un riformatore sociale che predica una etica egualitaria a favore degli ultimi, come un regionalista galileo che lotta contro le convenzioni religiose dell’elite della Giudea (il tempio e la Torah), come un campione della liberazione nazionale, o, al contrario, come suo oppositore e critico, e via di questo passo. Tutte queste figure sono state presentate con vigorosi argomenti e metodi accademici, tutte sono difese appellandosi a dati antichi. I dibattiti continuano briglia sciolta e il consenso –anche su punti essenziali quali i criteri in base ai quali procedere – appare una remota speranza”.
Anche le ricerche sociologiche sono approdate a risultati diametralmente opposti, come fa notare il grande specialista su Gesú e il giudaismo E.P. Sanders: “Per alcuni, il mondo in cui visse Gesú viveva una profonda crisi sociale ed economica. La Palestina era sull’orlo del crollo, sotto il peso di una doppia tassazione, locale e romana, crescente indebitamento dei contadini, sfruttamento delle classi benestanti…Per altri, al contrario, la Galilea del tempo di Gesú era urbanizzata, cosmopolita e prospera, un concentrato di cultura ellenistica, in cui tutti, Gesú compreso, parlavano greco” .
Non stupisce perciò che nel campo del post-moderno si sia sviluppata una radicale sfiducia. Qui l’alternativa non è più né tra storia e teologia, né tra storia e storia, ma tra storia e interpretazione, o criticismo letterario. Non c’è nessun dato oggettivo previo alla lettura; tutto si gioca nel confronto diretto tra il lettore e il testo, con esisti radicalmente soggettivi e relativi.
Cosa concludere da tutto ciò? Che la ricerca storica su Gesú sia da abbandonare? No di certo. Lo stesso studioso appena citato ne da l’esempio, dedicando ad essa la sua monumentale fatica. Credo che si possa applicare alla ricerca storica quello che un proverbio dice di Dio e cioè che “scrive diritto su righe storte”. Nonostante il suo andamento da tela di Penelope, c’è in essa una conoscenza storica che avanza, nuovi orizzonti che vengono aperti, nuove ipotesi formulate, alcune delle quali si rivelano illuminanti e produttive.
Quello semmai che si impone alla ricerca storica su Gesú è una maggiore umiltà e consapevolezza dei propri limiti intrinseci. La critica storica ha reso più umile e problematica l’ortodossia teologica, ma forse deve anch’essa accettare i propri limiti, dovuti sia alla situazione delle fonti, sia all’oggetto della ricerca che – almeno come ipotesi – travalica i limiti della storia. La problematicità, il pro e il contro e il senso del limite, è ciò che distingue di fatto le grandi monografie scientifiche sul Gesú storico – tra cui la più recente di Gerd Theissen e Annette Merz, Il Gesú storico. Un manuale – dagli autori in cerca di sensazionalismo, i cui libri sono una lunga marcia trionfale verso conclusioni già tutte chiare in partenza.
2. Gesú, credente ebreo o filosofo cinico?
Parlando dei limiti della ricerca storica, vorrei metterne in luce uno che mi sembra decisivo. Riguarda la possibilità di una ricerca storica su Gesú che non solo prescinda, ma escluda in partenza, esplicitamente o tacitamente, la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che è stato definito a volte “il Gesú degli atei”. Non parlo in questo momento della fede in Cristo, nella sua divinità, ma di fede in Dio, di fede nell’accezione più comune del termine.
Lungi da me l’idea che i non credenti non abbiano diritto di occuparsi di Gesú. Sono convinto, come scrivevo in un articolo del 26 Gennaio scorso su “Avvenire”, che Gesú è “patrimonio dell’umanità” e che nessuno, neppure la Chiesa naturalmente, ha il monopolio su di lui. Quello che voglio mettere in luce sono le conseguenze che derivano da un tale punto di partenza e come la “precomprensione” di chi non crede incida sulla ricerca non meno che quella del credente.
La mia convinzione è che, se si nega o si prescinde dalla fede in Dio non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo in riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.
Ma se Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra o la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. E come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo”? Sarebbe come dire che non la verità e la ragione hanno cambiato il mondo, ma l’illusione e l’irrazionalità. Come si spiega che quest’uomo continua, a distanza di duemila anni, a interpellare gli spiriti come nessun altro?
Non c’è che una via d’uscita a questo dilemma e bisogna riconoscere la coerenza di coloro che negli ultimi anni l’hanno imboccata. La via d’uscita è quella che si è fatta strada nell’ambito del “Jesus Seminar” di Berkeley negli Stati Uniti. Gesú non era un credente ebreo; era nel fondo un filosofo nello stile dei cinici ; non ha predicato un regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro stessi portavano in sé una scintilla divina . Ciò che –guarda caso- è ciò che va predicando da decenni New Age!
Prima di costoro Nietzsche aveva chiaramente visto il dilemma e lo aveva risolto in maniera molto più coerente di oggi: facendo di Gesú non un filosofo rappresentante della razionalità greca, ma il suo irriducibile contrario.
3. Continuità o rottura? Il “Gesú di Nazareth” di Benedetto XVI
Ora vorrei passare alla pars construens del mio intervento che corrisponde al secondo termine del titolo di questa tavola rotonda: Gesú di Nazareth tra storia e teologia. Dopo tutto l’immenso impegno profuso da Reimarus ad oggi (non senza ragione e non senza risultati positivi) per liberare il Gesú della storia dal Cristo del dogma ecclesiastico, forse è utile a tutti riprendere in considerazione il punto di vista della tradizione e della dommatica ecclesiastica, fattasi più umile e più cosciente dei propri limiti, grazie proprio alla critica storica.
È quello che, credo, ha inteso fare il papa Benedetto XVI con il suo libro “Gesú di Nazaret”. Qualcuno gli ha mosso il rimprovero di baipassare, in tal modo, tutti i problemi e i dubbi sollevati dalla moderna critica storica. Ma io mi domando: cosa avrebbe dovuto fare il papa: scrivere un’ennesima ricostruzione storica in cui discutere e controbattere tutte le obiezioni? Abbiamo sentito sopra quanto è lunga la lista di coloro che l’hanno fatto, da credenti o da non credenti, e non credo proprio che una ricostruzione in più, anche se scritta da un papa, avrebbe fatto una grande differenza.
Quello che il papa ha scelto di fare è stato di presentare in positivo la figura e l’insegnamento di Gesú come inteso dalla Chiesa, partendo dalla convinzione che il Cristo della fede è anche rigorosamente il Gesú della storia. Poiché il papa ha lasciato a tutti, in questo caso, la libertà di criticarlo, mi permetto anch’io una piccola riserva. Penso che la continuità tra il Gesú della storia e il Cristo del kerygma, come pure quella tra il Cristo del kerygma e il Cristo del dogma, per quanto reale, sia meno rettilinea e scontata di quanto appaia dalla sua, necessariamente sommaria, introduzione iniziale.
Su questo punto penso si possa condividere l’opinione di Theissen e Merz: “I cristiani dopo la Pasqua hanno formulato su Gesú più affermazioni (vale a dire , hanno detto cose più grandi e più importanti) di quanto abbia detto di sé lo stesso Gesú storico. Questo ‘plusvalore’ della cristologia post-pasquale rispetto all’autocoscienza di Gesú prima di Pasqua è basato, sia sul piano storico che su quello oggettivo, sull’evento della pasqua” .
Sarebbe ingeneroso misconoscere la ricchezza teologica e spirituale del libro di Benedetto XVI su Gesú, misurandolo unicamente con il metro del Gesú storico. Certo, è un libro scritto da credente per credenti e per persone interessate a conoscere il Cristo della tradizione e della Chiesa. Io lo vedo più sulla linea di Il Signore. Riflessioni sulla persona e la vita di Gesù Cristo di Romano Guardini e prevedo per esso una tenuta molto più duratura nel tempo di quanto avrebbe potuto avere un’ennesima discussione, di carattere necessariamente apologetico, sul Gesú storico.
Il papa si richiama esplicitamente all’esegesi canonica, cioè a quel tipo di esegesi credente che parte dalla convinzione di fede che Dio non ha un solo modo di rivelarsi al mondo, quello della storia; ne ha molti altri tra cui il più importante è l’ispirazione biblica. Su questa convinzione, che permette di leggere non solo “il frammento nel tutto”, ma anche “il tutto nel frammento” si basa tutta la lettura spirituale della Bibbia fatta dalla Chiesa lungo i secoli, di cui H. de Lubac, in una magistrale opera, ha messo in luce la coerenza e la fecondità .
È molto significativo che la scelta del papa di attenersi al Gesú dei vangeli trovi, per certi versi, una conferma autorevolissima nella recente monumentale monografia di James Dunn ricordata sopra. In essa, dopo una serrata analisi dei risultati degli ultimi tre secoli di ricerche, lo studioso giunge alla conclusione che non c’è stata nessuna cesura tra il Gesú predicante e il Gesú predicato e quindi tra il Gesú della storia e quello della fede. Questa non è nata dopo la Pasqua, ma con i primi incontri dei discepoli, i quali sono divenuti discepoli proprio perché hanno creduto nel Rabbi di Nazareth.
La difficoltà di risalire dai vangeli sinottici al Gesú reale è nata in buona parte dal fatto che non si è tenuto conto delle leggi che regolano la trasmissione delle tradizioni fondatrici di una comunità presso gruppi umani dalla cultura non scritta, come erano quelli tra cui si formarono e circolarono i racconti su Gesù. Lo studio di tali leggi (tuttora verificabili presso gruppi umani di cultura pre-letteraria) mostra che un fatto o un discorso ritenuto importante per la storia e la vita della comunità può trasmettersi con singolare accuratezza nei suoi elementi centrali, pur variando nei particolari a ogni ri-narrazione, per rispondere alle esigenze del momento.
Letti in questo modo, afferma lo studioso, “i vangeli sinottici attestano un modello e una tecnica di trasmissione orale che hanno garantito una stabilità e una continuità nella tradizione di Gesú maggiori di quelle che si sono sin qui generalmente immaginate”.
4. La venerazione di Gesù Cristo
Dove e quando inizia dunque quello che chiamiamo ‘cristianesimo’? Se per cristianesimo si intende correttamente la venerazione di Gesú di Nazareth come Signore e essere divino, esso inizia con la Pasqua e la Pentecoste. Larry W. Hurtado, professore di lingua, letteratura e teologia del Nuovo Testamento all’università di Edimburgo, ha ripreso recentemente su basi nuove, alla luce cioè della riconosciuta matrice giudaica e non ellenistica del cristianesimo primitivo, lo studio sull’origine del culto di Gesú condotto da W. Bousset all’inizio del secolo scorso. Ed ecco la conclusione a cui giunge dopo una ricerca che si estende per 750 pagine:
“La venerazione di Gesú come figura divina, esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesú come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale. La venerazione di Gesú come ‘signore’, che trovava espressione adeguata nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli ‘ellenisti’ o i cristiani gentili di un ipotetico ‘culto di Cristo siriaco’. Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesú era incredibilmente comune. Le ‘eresie’ del primo cristianesimo postulavano largamente l’idea della divinità di Gesú. Non è questo in discussione. Il punto problematico, piuttosto, era se vi fosse spazio per un Gesú autenticamente umano” .
Certo, se uno mette a confronto il Gesú dei vangeli con il Cristo di Nicea e di Calcedonia, a prima vista sembra esserci un abisso di mezzo. Anche se uno mette a confronto un embrione fotografato nel grembo materno con l’uomo adulto che ne è nato sembra esserci un abisso di mezzo, eppure tutto quello che l’uomo è diventato era in germe nell’embrione. Gesú aveva paragonato il regno da lui predicato al più piccolo dei semi, destinato a crescere e diventare albero grande (Mt 13,32).
5. Uno o tanti cristianesimi?
Mi resta da dire qualcosa a proposito della tesi secondo cui all’origine non ci sarebbe un cristianesimo, ma molti cristianesimi, cioè interpretazioni diverse del messaggio di Cristo, eliminate via via dalla crescente pressione dell’ortodossia sotto la regia della chiesa di Roma. È possibile, perché no?, parlare di diversi cristianesimi, anziché di tendenze diverse all’interno di una stessa realtà in formazione, ma allora bisogna dire la stessa cosa di quasi tutte le istituzioni e le grandi novità della storia: non parlare di una religione ebraica ma di più religioni ebraiche, non di un rinascimento ma di più rinascimenti, di più rivoluzioni francesi e così via, perché tutte queste realtà sono il risultato di processi di scontro e di decantazione di tendenze e fattori diversi. I sociologi ci insegnano che è ciò che avviene di solito nel passaggio da un movimento “statu nascenti” all’istituzione cui esso da luogo.
L’idea avanzata da qualche parte di ripartire da capo, rimettendo tutte le tessere nel sacco, cioè tutti i cristianesimi sepolti di nuovo in lizza, per dar vita a una forma nuova e inedita di esso, mi fa pensare al progetto di un nuovo Esperanto e al suo esito.
Bisogna semmai riconoscere all’ortodossia delle origini il merito di aver condotto questa battaglia con i libri e i decreti, senza mandare al rogo nessuno, né Marcione, né Valentino, né Montano. Si dirà, non avrebbe potuto farlo; verissimo, ma sta di fatto che non l’ha fatto e almeno nei primi secoli della sua storia l’ortodossia non si è imposta con la forza e la conquista ma con gli argomenti e la vita. Le origini sono pure e ad esse possiamo guardare e ispirarci.
La tesi di una ortodossia che trionfa eliminando le concorrenze sotto la guida potente di Roma è una leggenda storiografica. L’ortodossia non si afferma all’origine con un movimento che va dal centro verso la periferia, ma al contrario con un movimento che va dalla periferia verso il centro. Le lotte contro l’ebionismo, il docetismo, l’encratismo non partirono da Roma, ma giunsero a Roma, da Antiochia di Siria, Asia Minore, Alessandria d’Egitto, Cartagine, Lione in Francia. Roma nei primi due secoli e mezzo di storia cristiana è più arbitro tra le parti che parte attiva nella lotta contro le eresie. A Nicea stessa l’influenza di Roma e dell’occidente in genere fu minima. Il giudizio sul ruolo di Roma nel trionfo dell’ortodossia è in buona parte frutto di una proiezione all’indietro di situazioni posteriori (se non addirittura contemporanee!).
L’ortodossia del resto non ha annientato molte di queste forme alternative di cristianesimo, ma le ha fatte proprie liberandole dall’elemento “settario” e unilaterale che le rendeva ‘eretiche’. L’istanza dell’encratismo sopravvive nella Chiesa nello stato di verginità e nel monachesimo; l’istanza della gnosi è assunta, nel suo elemento valido, dagli alessandrini Clemente e Origene. Il profetismo itinerante, dopo la crisi iniziale dovuta agli eccessi montanisti, rispunterà nella Chiesa con i movimenti mendicanti del Medio evo.
6. Conclusione
Non posso terminare questa mia analisi senza far notare una contraddizione. Tutta la spasmodica ricerca del Gesú della storia, quando è condotta per distanziarlo dal Cristo della Chiesa, si risolve in definitiva in un radicale rifiuto della storia. La storia a cui Gesú ha dato luogo, che ha creato con la sua vita, non solo non è presa in considerazione, ma ogni forzo è fatto da alcuni per annullarla, alla ricerca di un punto di partenza staccato da essa, in antitesi con essa.
Non si applica in questo caso il principio ermeneutico della Wirkungsgeschichte, della storia degli effetti, che tiene conto non solo degli influssi subiti, ma anche degli effetti prodotti e degli influssi esercitati. L’interprete, afferma H.- G. Gadamer, non può porsi al di sopra della tradizione che lo lega al passato che sta studiando, ma può cominciare a capire adeguatamente soltanto in quanto parte di questa tradizione e grazie ad essa . Non credo che ciò debba intendersi nel senso che solo chi aderisce interiormente al cristianesimo può capire qualcosa di esso, ma certo dovrebbe mettere in guardia dal credere che solo ponendosi al di fuori di esso si possa dire qualcosa di oggettivo su di esso.
È attraverso la Chiesa e per la Chiesa che Gesú ha cambiato il mondo. Senza “quello sbaglio chiamato cristianesimo”, come lo definisce qualcuno , non saremmo qui a parlare di lui. Gesú sarebbe oggi un oscuro rabbi della Galilea, il cui nome a malapena si leggerebbe in una nota a Tacito o a Giuseppe Flavio. Non ci sarebbero stati un Agostino, un Francesco d’Assisi, un Tommaso d’Aquino, Lutero, Pascal; non ci sarebbero state le cattedrali gotiche e le chiese romaniche, Dante, la pittura rinascimentale, Michelangelo e la Cappella Sistina, Bach e le sue Passioni, Mozart e le sue Messe. Non ci sarebbero stati, soprattutto, le innumerevoli schiere di uomini e donne che, in nome del Cristo conosciuto nella Chiesa, si sono chinati su tutte le sofferenze e le solitudini umane.
Siamo sicuri che il nostro mondo sarebbe migliore senza tutto questo? Il cristianesimo storico non è stato solo crociate, inquisizione o guerre di religione, anche se, ahimè, è stato anche questo.