Geremia 20, 10-13; Romani 5, 12-15; Matteo 10, 26-33
Leggiamo insieme alcune parole del Vangelo di questa domenica:
“Non temete gli uomini… E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo… Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore”.
Abbiamo chiaro davanti agli occhi il tema dominante di questa domenica: Cristo ci vuole liberare dalla paura!
La paura è la nostra condizione esistenziale; essa ci accompagna dall’infanzia alla tomba. Il bambino ha paura di tante cose: di essere abbandonato, del buio, di chi alza la voce, dei mostri che i grandi agitano nella loro mente per tenerli buoni (il lupo cattivo, l’orco, l’uomo nero). L’adolescente ha paura del¬l’altro sesso e si avviluppa in complessi di timidezza e di inferiorità. L’adulto sperimenta l’angoscia del mondo, del futuro, avverte la sua vulnerabilità in un mondo violento e impazzito. A queste paure tradizionali si aggiungono quelle create dallo stesso progresso tecnologico: guerra nucleare, inquinamento atmosferico…
Ma che cos’è la paura? È una manifestazione del nostro istinto fondamentale di conservazione. È la reazione a una minaccia portata alla nostra vita, la risposta a un pericolo vero o presunto. Dal pericolo più grande di tutti, che è quello della morte, ai pericoli particolari che minacciano o la tranquillità, o la incolumità fisica, o il no¬stro mondo affettivo.
A seconda che si tratti di pericoli reali, o immaginari, si parla di paure giustificate e di paure ingiustificate e patologiche. Queste ultime possono assumere toni parossistici e configurarsi come fobie. Tali sono, per esempio, la claustrofobia, l’agorafobia, la paura di malattie immaginarie, il bisogno nevrotico di tenere tutto sotto controllo, in modo che nulla di incontrollabile, di inaspettato, di non familiare e pericoloso possa sopravvenire.
Io distinguerei le paure anche in altro modo. Come le malattie, le paure possono essere o acute o croniche. Le paure acute sono stati determinati da una situazione di pericolo straordinario. Se io sto per essere investito da un’auto, o comincio a sentire la terra tremarmi sotto i piedi per il terremoto, queste sono paure acute. Questi spaventi, come sorgono improvvisamente e senza preavviso, così scompaiono con il cessare del pericolo, lasciando semmai solo un brutto ricordo. Non dipendono da noi e sono naturali. Più pericolose sono le paure croniche, quelle che vivono con noi, che ci portiamo dietro dalla nascita o dall’infanzia che crescono con noi, che diventano parte del nostro essere, e alle quali finiamo a volte perfino per affezionarci.
La paura, anche quella cronica, non è un male in se stesso. Spesso è l’occasione per rivelare un coraggio e una forza insospettate. Solo chi conosce la paura, sa cos’è il coraggio. Diventa veramente un male che consuma e non fa vivere, quando anziché stimolo a reagire e molla all’azione, diventa scusa all’inazione, qualcosa che paralizza. Quando si trasforma in ansia. Gesù ha dato un nome alle ansie più comuni dell’uomo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?”
L’ansia è diventata la malattia del secolo ed è una delle cause principali del moltiplicarsi degli infarti. Viviamo nell’ansia, ed è così che non viviamo! L’ansietà è la paura irrazionale d’un oggetto sconosciuto. Un temere sempre, di tutto, un attendersi sistematicamente il peggio e vivere sempre con il batticuore. Se il pericolo non esiste, l’ansia lo inventa, se esiste lo ingigantisce. La persona ansiosa soffre sempre i mali due volte: prima nella previsione e poi nella realtà. Quello che Gesù, nel Vangelo, condanna non è tanto la semplice paura o la giusta sollecitudine per il domani, quanto proprio questa ansia e questo affanno. “Non affannatevi, dice, per il domani. A ciascun giorno basta la sua pena”.
Ma lasciamo stare di descrivere le nostre paure di vario genere e cerchiamo invece di vedere qual è il rimedio che il Vangelo ci offre per vincere le nostre paure. Il rimedio si riassume in una parola: fiducia in Dio, credere nella provvidenza e nell’amore del Padre celeste.
La vera radice di tutte le paure è quella di ritrovarci soli. Essa continua la paura del bambino di essere abbandonato. E Gesù ci assicura proprio di questo: che non saremo abbandonati. “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”, dice un salmo (Salmo 27,10). Anche se tutti ci abbandonassero, lui no. Il suo amore è più forte di tutto.
San Paolo ci insegna un metodo pratico per vincere le paure. Nella lettera ai Romani, a un certo punto, egli passa in rassegna tutte le situazioni di pericolo e le cose che hanno minacciato di abbatterlo nella vita: “la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” (Romani 8, 35 ss). Con ognuna di queste parole allude a un fatto realmente accadutogli. Guarda quindi tutte queste cose alla luce della grande certezza che Dio lo ama e conclude trionfalmente:
“In tutte queste cose noi stravinciamo grazie a colui che ci ha amati”.
Noi siamo invitati a fare lo stesso. A guardare la nostra vita, presente e passata; a portare a galla le paure che vi si annidano: le tristezze, le minacce, i complessi, chissà, quel tale difetto fisico o morale che ingigantiamo a forza di pensarci e che ci impedisce di accettarci e avere fiducia in noi stessi; quindi a esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio ci ama, così come siamo. Le paure, sono come i fantasmi: hanno bisogno del buio per agire. Ci sopraffanno se le manteniamo a livello inconscio. Spesso basta portarle alla luce, dar loro un nome, parlarne, perché si dissolvano o si ridimensionino.
Poi san Paolo fa un’altra cosa. Dalla sua vita personale allarga lo sguardo sul mondo che lo circonda con le incognite che a quel tempo terrorizzavano gli uomini: le potenze astrali, la morte, quelle che egli chiama “l’altezza e la profondità” e che noi oggi chiameremmo l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, l’universo e l’atomo. Allora come ora, tutto è pronto a schiacciarci. L’uomo si sente un granello di polvere in un universo tanto più grande di lui, reso oggi più minaccioso dalle scoperte che egli stesso ha fatto. Ma anche da questo confronto, l’Apostolo ci aiuta a uscire vittoriosi, con questo pensiero:
“Se Dio è con noi chi sarà contro di noi”?
Non possiamo però lasciare il discorso sulla paura a questo punto. Risulterebbe poco aderente alla realtà. Gesù vuole liberarci dalle paure e ci libera sempre. Egli però non ha un solo modo per farlo; ne ha due: o ci toglie la paura dal cuore o ci aiuta a viverla in modo nuovo, più liberamente, facendone un’occasione di grazia per noi e per gli altri.
Egli stesso ha voluto farne l’esperienza. Nel giardino degli ulivi, è scritto, che “cominciò a provare tristezza e angoscia”. Il testo originale suggerisce addirittura l’idea di un terrore solitario, come di chi si sente tagliato fuori dal consorzio umano, in una solitudine immensa. E l’ha voluta sperimentare proprio per redimere anche questo aspetto della condizione umana. Da quel giorno, vissuta in unione con lui, la paura, specie quella della morte, ha il potere di innalzarci, anziché deprimerci, di renderci più attenti agli altri, più comprensivi; in una parola, più umani.
Esiste un’opera di Bernanos intitolata I dialoghi delle carmelitane. Narra la storia di 16 carmelitane cadute al tempo della rivoluzione francese, il 4 Agosto 1790 e dichiarate beate da Pio X. Tra loro, nel dramma, c’è una suora giovanissima, di famiglia nobile. La madre l’ha data alla luce in seguito a un terribile spavento e lei è cresciuta letteralmente impastata di paura. Facendosi suora ha voluto, di proposito, prendere il nome di Sr. Bianca dell’Agonia di Gesù.
Quando le minacce e le perquisizioni dei rivoluzionari si fanno sempre più gravi, prima che vengano ad arrestare le suore, terrorizzata, ella fugge e si nasconde. Le consorelle vengono processate, condannate e condotte alla ghigliottina. Cantano in coro il Veni creator, l’inno dello Spirito Santo. A mano a mano che ognuna sale sul palco e cade, il coro si fa più flebile. Solo ormai due voci, una sola, poi, giunti alla penultima strofa, silenzio.
Quand’ecco, nel silenzio generale, levarsi in mezzo alla folla una voce nitida, risoluta, quasi infantile. È suor Bianca che ha scoperto in sé un nuovo coraggio, si fa avanti, sale sul palco cantando l’ultima strofa e presenta anche lei il capo alla ghigliottina. La paura ha reso ancora più puro il suo martirio.
È un incoraggiamento per quelli che, nonostante tutti gli sforzi, non riescono a vincere la paura. Se san Francesco chiamava sorella la morte, possiamo chiamare sorella anche questa paura redenta, e dire: “Laudato sii, mi Signore, per sorella paura”. Tanto più che per molti essa è davvero una “sorella siamese” con la quale devono convivere per tutta la vita.
Questo ci aiuterà a vincere la paura più brutta e pericolosa di tutte che è, ricordiamocelo bene, aver paura della propria paura.