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“Se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” - II Domenica di Pasqua

Atti 2, 42-47; 1 Pietro 1, 23-9; Giovanni 20, 19-31

Oggi è la Domenica in albis, cioè di bianco. Si chiama così perché nell’antichità in questo giorno i neofiti tornavano alla Chiesa con le vesti bianche del loro battesimo. Il Vangelo ci narra di due apparizioni di Cristo avvenute tutte e due nel cenacolo, otto giorni dopo la risurrezione. Nella prima non era presente l’apostolo Tommaso. Quando gli altri gli narrarono l’accaduto, egli se ne uscì con la ben nota dichiarazione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi”. Ora riascoltiamo il seguito del Vangelo:

“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi!
Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”.

Con l’insistenza sulla vicenda di Tommaso il Vangelo viene incontro al lettore moderno, all’uomo dell’era tecnologica che non crede se non a ciò che può verificare. Gli presenta un modello credibile; uno che gli somiglia abbastanza per poterlo prendere in considerazione: Tommaso, il dubbioso, il pratico, colui che dichiara che non sarà facile indurlo ad arrendersi e a credere! Viene da pensare a certi uomini di cultura dei nostri giorni, i quali, sentendo che qualche loro collega si è avvicinato alla fede, reagiscono scandalizzati, facendo capire che questo non succederà mai con loro. Possiamo chiamare Tommaso un nostro contemporaneo tra gli apostoli
Il carattere di Tommaso si delinea a parecchie riprese nel Vangelo e sempre sotto la stessa luce. Pensiamo all’episodio della risurrezione di Lazzaro: sono venuti a dire a Gesù: “Signore, colui che tu ami è malato”… I discepoli si preoccupano del pericolo (in Giudea si cerca Gesù per farlo morire), e Tommaso esclama: “Andiamo: moriremo con lui!”. Questa non è la parola di uno che crede, ma di uno che dispera, che è rassegnato al peggio. Anche in questo è molto moderno. Tanti sono disposti a rischiare anche la vita, ma non ad abbandonarsi alla gioia di credere. Si rischia la vita parecchie volte al giorno: si attraversa in fretta la strada, si salta da un autobus in corsa, si fa un sorpasso imprudente… ma non si è disposti a correre il cosiddetto “rischio della fede” che ci salverebbe dalla morte
Altro particolare rivelatore. Nell’ultima cena Gesù ha detto agli apostoli: “Del luogo dove io vado, voi conoscete la via”. Tommaso, da uomo franco e non abituato a tenere per sé i suoi dubbi, ribatte: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. È straordinario come ogni volta i dubbi di Tommaso si siano risolti in benedizione per noi. Questa sua osservazione fu infatti l’occasione in cui Gesù pronunciò una delle parole più alte di tutto il Vangelo: “Io sono la via, la verità e la vita” (Giovanni 14, 4-6).
Quello che ha salvato Tommaso è stata la sofferenza che c’era nel suo non-credere. La durezza delle condizioni che pone per credere (mettere la mano nella ferita, il dito nella piaga) viene da una grande sofferenza. È quello fra gli apostoli che ha più rimpianti di non aver saputo morire con lui, come aveva solennemente dichiarato. Ma soffrire di non amare qualcuno, è un segno di vero amore. Soffrire di non poter credere, è una forma di fede incompleta ma sincera!
Un anziano notissimo giornalista italiano in una intervista una volta disse: “Ho sempre cercato Dio e non l’ho trovato. L’ho sempre cercato, perché credo che la fede possa dare una forza straordinaria. Ma non mi sento responsabile o colpevole del fatto che a me questa forza sia mancata. E se Dio lo trovassi gli chiederei: Perché non mi hai dato la fede?”. A lui e quanti si trovano nella sua stessa situazione, risponderei così: “Forse Dio non ti ha dato la fede perché lo aiutassi a purificare la fede di chi doveva annunciartela e a fargli sentire la responsabilità e l’urgenza di farlo. Tu sai però quello che si sono sentiti rispondere uomini come Agostino e Pascal che avevano posto a Dio prima di te la stessa domanda: “Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato”. Anzi, “se io non ti avessi già trovato!” Desiderare senza credere può essere una fede più pura che credere senza desiderare, dando per scontato tutto.
Ciò che Tommaso aveva enunciato come una esigenza assurda, come una sfida inverosimile, formulata nel trasporto appassionato della sua resistenza: “Se non vedo…se non metto il dito…”, ecco che Gesù l’accetta. Si lascia vincere da Tommaso. Solo per lui ha cambiato tutte le sue disposizioni e il suo metodo. Alla Maddalena, per esempio, aveva detto il contrario: “Non mi toccare!”. Gesù amava Tommaso; sapeva che si mostrava così restio solo perché si era sentito tanto infelice, allora si è schierato con lui, l’ha difeso contro se stesso, gli ha parlato al cuore e lui ne è stato tutto sconvolto.
Quando Tommaso ha visto Gesù davanti a sé, ha capito di colpo di aver sempre saputo che lui era risorto. Aveva vissuto abbastanza a lungo con Gesù per sapere che doveva aspettarsi una cosa simile, che con lui capitavano sempre delle cose buone, beatificanti, incredibili come questa! Avrebbe dovuto credere agli altri. Rifiutando di credere non aveva fatto altro che infliggersi una punizione, difendersi da un’attesa che era troppo viva. Moriva insieme dal desiderio e dalla paura di credere.
E non c’è stato peggior castigo per lui che l’aver ottenuto ciò che aveva posto come condizione per la sua fede. Si è accorto di aver perduto l’occasione che gli era stata offerta. Ha capito che avrebbe dovuto dare a Gesù la sua fede. In fondo, non aveva bisogno di queste prove. Mostrandosi scettico, si era comportato come un bambino viziato che cerca di imporre le sue esigenze all’amore del papà o della mamma di cui è perfettamente sicuro.
Adesso non ha più voglia di toccare, avrebbe dato qualunque cosa pur di non mettere il dito e la mano nella piaghe, per non sentire quel velato rimprovero: “Perché hai veduto, Tommaso, hai creduto; beati quelli che non hanno veduto e hanno creduto”. E quando tocca, lo fa per docilità, per pentimento. Non come chi vuole accertarsi puntigliosamente di una cosa e si accinge a prendere diligentemente le misure. Lo fa come chi compie un pellegrinaggio. Era ciò che poteva fare di più doloroso e di più umiliante. Riparava, si puniva. Gli artisti moderni lo hanno rappresentato nel primo modo (tipico il quadro un po’ truce di Caravaggio dove Tommaso va giù pesante con le sue dita nelle ferite); i pittori antichi, più spirituali, soprattuttto le icone orientali, lo rappresentano curvo in adorazione come chi vorrebbe sprofondare davanti a Gesù.
Per essere penetrato così addentro nell’intimità di Cristo, Tommaso è stato trasportato a un’altezza che nessuno degli altri aveva fino allora raggiunta. Più in alto perfino di Giovanni a cui era stato concesso solo di posare il capo sul petto di lui, ma ancora all’esterno. Folgorato, Tommaso cade in ginocchio e esclama: “Mio Signore, mio Dio!“. Nessun altro apostolo si era ancora spinto a dirgli questo: “mio Dio ”. Gesù l’ha amato tanto, l’ha guarito con tanta dolcezza da cambiare questa colpa e questa umiliazione in un meraviglioso ricordo. Cristo rimette così i peccati. Lui sa fare di tutte le colpe umane delle “felici colpe” (come dice la liturgia nell’Exultet pasquale), delle colpe che non ricordi più se non per la meravigliosa tenerezza di cui sono state occasioni!
San Gregorio Magno dice che, con la sua incredulità, Tommaso ci è stato più utile che non tutti gli altri apostoli che hanno creduto subito. Così facendo, egli ha, per così dire, costretto Gesù a darci una prova “tangibile” della verità della sua risurrezione. La fede nella risurrezione è uscita avvantaggiata dai suoi dubbi. Questo è vero, almeno in parte, anche applicato ai numerosi “Tommaso” di oggi che sono i non-credenti. La Chiesa -ha dichiarato il concilio- riconosce di aver imparato molto anche da coloro che l’hanno combattuta.
La critica e il dialogo con i non-credenti, quando si svolgono nel rispetto e nella lealtà reciproca, ci sono di grande utilità. Anzitutto ci rendono umili. Ci costringono a prendere atto che la fede non è un privilegio, o un vantaggio per nessuno. Non possiamo né imporla, né dimostrala, ma solo proporla e mostrarla con la vita. “Che cos’hai che non hai ricevuto e se l’hai ricevuto perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?”, dice san Paolo (cfr. 1 Corinzi 4,7). La fede, nel suo fondo, è un dono, non un merito, e come ogni dono non può essere vissuto che nella gratitudine e nell’umiltà.
Il confronto con i non-credenti ci aiuta anche a purificare la nostra fede da rappresentazioni grossolane. Molto spesso quello che i non-credenti rifiutano non è il vero Dio, il Dio vivente della Bibbia, ma una sua controfigura, un’immagine distorta di Dio che i credenti stessi hanno contribuito a creare. Rifiutando questo Dio, i non-credenti ci costringono, salutarmente, a rimetterci sulle tracce del Dio vivo e vero, che è al di là di ogni nostra rappresentazione e spiegazione. A non fossilizzare o banalizzare Dio.
Non possiamo però concludere su questo tono, per così dire, neutrale la nostra riflessione sul Vangelo odierno. C’è almeno un desiderio da esprimere: che san Tommaso trovi oggi molti imitatori non solo nella prima parte della sua storia (quando dichiara di non credere), ma anche nella seconda parte e soprattutto nel finale, in quel suo magnifico atto di fede. Tommaso è da imitare anche per un altro fatto. Egli non chiude la porta; non si fissa nella sua posizione, dando per risolto, una volta per tutte, il problema. Tanto è vero che otto giorni dopo, lo troviamo con gli altri apostoli nel cenacolo. Se non avesse desiderato credere, o “ricredersi”, non sarebbe stato lì. Vuole vedere, toccare: dunque è in ricerca. E alla fine, dopo che ha visto e ha toccato con mano, esclama rivolto a Gesù, non come un vinto, ma come un vincitore: “Signore mio e Dio mio!”.
Quanto a noi credenti, la storia di Tommaso ci esorta ad apprezzare il privilegio che abbiamo. Noi possiamo ancora credere prima di forzare la mano a Dio a farsi vedere e toccare con segni e miracoli. Possiamo credere “prima di aver visto”. Un giorno varcata la soglia di questa vita, vedremo anche noi le ferite delle mani e del costato di Cristo (l’Apocalisse dice che egli conserva anche in cielo i segni della sua passione) e dovremo esclamare -speriamo per la nostra felicità, non per nostra condanna: “Signore mio, Dio mio!”.