1. «Battezzati in un solo Spirito
per formare un solo corpo»
Il racconto della Pentecoste, negli Atti degli Apostoli, comincia con l’indicazione del tempo e del luogo: «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2, 1). Il tempo è dunque quello in cui gli ebrei celebravano la festa di Pentecoste e il luogo è quella «sala al piano superiore» in cui gli apostoli si erano ritirati dopo l’Ascensione di Gesù (cf At 1, 13). Segue quindi, nei versetti successivi, la descrizione del miracolo che procede, con rapidi tratti, dall’esterno verso l’interno, dai segni visibili – il vento, il fuoco – alla realtà spirituale: “Tutti furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue” (At 2, 1-4).
A questo punto si ripete ciò che era avvenuto alla nascita di Cristo e che Luca descrive all’inizio del suo Vangelo. L’avvenimento non può rimanere nascosto, la notizia dell’accaduto trabocca e si diffonde all’esterno. Questa volta non si tratta però di pochi pastori palestinesi, ma di rappresentanti di tutte le nazioni che sono sotto il cielo e di cui Luca fornisce anche un elenco. Lo stupore raggiunge il colmo quando ciascuno sente gli apostoli parlare la propria lingua.
Così facendo, Luca ha voluto mettere in risalto «la missione universale della Chiesa», come segno di una nuova unità tra tutti i popoli. Questa intenzione di Luca – e quindi dello Spirito Santo che l’ha ispirato nello scrivere – si precisa andando avanti nella lettura degli Atti. In due modi lo Spirito lavora per l’unità della Chiesa: da un lato spinge la Chiesa verso l’esterno, ad abbracciare nella sua unità un numero sempre maggiore di categorie e di persone, dall’altro la spinge verso l’interno a consolidare l’unità raggiunta. Le insegna a estendersi in universalità e a raccogliersi in unità.
Vediamo il primo dei due movimenti in atto nel capitolo 10 degli Atti, nell’episodio della conversione di Cornelio. Fino a che punto deve spingersi l’universalità della comunità dei discepoli di Cristo e chi è chiamato a entrare in essa? Dopo l’esperienza fatta il giorno di Pentecoste, gli apostoli erano pronti a rispondere: tutti i giudei e gli osservanti della legge, a qualsiasi popolo appartenessero. Tali infatti erano quelli che il giorno di Pentecoste avevano aderito alla fede. Occorse un’altra Pentecoste, molto simile alla prima – quella appunto in casa del centurione pagano Cornelio –, per indurre gli apostoli ad allargare l’orizzonte e far cadere l’ultima barriera, quella tra giudei e gentili.
Il secondo movimento lo vediamo in atto al capitolo 15 degli Atti, nello svolgimento del concilio di Gerusalemme, quando il problema è come far sì che l’universalità non comprometta l’unità interna della Chiesa. Nel corso del lungo e sofferto processo che accompagnò l’andata della Chiesa verso i pagani, lo Spirito Santo rivela un altro suo modo di operare l’unità che è necessario saper riconoscere. Egli non opera nella Chiesa sempre in maniera repentina, con interventi miracolosi e risolutivi, come a Pentecoste, ma anche, e più spesso, in un secondo modo: con una presenza e un lavorio discreto, rispettoso dei tempi e delle divergenze umane, passando attraverso persone e istituzioni, preghiera e confronto e tutto orientando, anche se in tempi più lunghi, al compimento dei disegni del Padre. Così infatti avvenne, nel concilio di Gerusalemme, per la questione dell’atteggiamento da tenere verso i convertiti dal paganesimo, la cui soluzione fu annunciata a tutta la Chiesa con le parole: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15, 28).
Nella visione di Luca dunque lo Spirito che a Pentecoste viene sugli apostoli, e che continua poi a guidare il cammino della Chiesa nella storia, è fondamentalmente uno Spirito di unità. San Paolo riassume con una sola frase questa comprensione del ruolo dello Spirito che fu anche la sua: «Battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei e greci» (1 Cor 12, 13).
2. Lo Spirito Santo, anima della Chiesa
«Universale», all’origine, significa ciò che è rivolto all’uno (uni-versum), ciò che tende a formare qualcosa di unitario. Per sé, non indica dunque solo un movimento verso l’esterno, centrifugo, ma anche verso l’interno, centripeto. La Chiesa è universale non solo quando tende a raggiungere «i confini della terra», ma anche quando tende verso il suo centro che è il capo del corpo, il Cristo risorto. In questo senso, universalità e unità coincidono e lo Spirito di unità è anche lo Spirito di universalità della Chiesa.
La Tradizione della Chiesa ha colto assai per tempo questo significato della Pentecoste che riguarda l’universalità e l’unità della Chiesa. «In tutte le lingue – scrive sant’Ireneo, spiegando la Pentecoste –, mossi da uno stesso Spirito, inneggiavano a Dio, mentre lo Spirito riconduceva all’unità le tribù separate e offriva al Padre le primizie di tutte le genti»5. Secondo la spiegazione più antica, Pentecoste era la festa delle settimane, quando il sacerdote, nel tempio, offriva a Dio le primizie del nuovo raccolto (cf Lv 23, 10).
Sant’Ireneo vede in ciò una figura che si è realizzata nella Pentecoste cristiana, quando lo Spirito Santo ha offerto al Padre «le primizie di tutte le genti» redente da Cristo. Lo stesso santo tenta di spiegare con un’immagine come lo Spirito realizza questa nuova unità: «Come – dice – dalla farina asciutta non si può fare, senza l’acqua, una sola massa e un solo pane, così noi che siamo molti non potevamo divenire uno in Cristo Gesù senza l’Acqua che viene dal cielo»6.
Sant’Agostino, assillato com’era dal problema dei donatisti che coltivavano un’idea particolaristica e settaria di Chiesa, ha dedicato quasi tutti i suoi discorsi per la Pentecoste a illustrare ciò che essa significa per l’unità della Chiesa: «Come allora – scrive in uno di essi – le diverse lingue che un unico uomo poteva parlare erano il segno della presenza dello Spirito Santo, così ora il segno della sua presenza è l’amore per l’unità di tutti i popoli… Sappiate dunque che avete lo Spirito Santo quando acconsentite a che il vostro cuore aderisca all’unità attraverso una carità sincera»7.
Anche sant’Agostino ricorre a un’immagine per spiegare questo rapporto tra Spirito Santo e unità, l’immagine di ciò che fa l’anima nel corpo umano: «Ciò – scrive – che è l’anima per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa. Lo Spirito Santo opera in tutta la Chiesa ciò che opera l’anima in tutte le membra di un unico corpo. Ma ecco ciò che dovete evitare, ecco da che cosa dovete guardarvi, ecco ciò che dovete temere. Può accadere che nel corpo umano anzi dal corpo umano venga reciso qualche membro: una mano, un dito, un piede. Forse l’anima segue il membro amputato? Quando questo era attaccato al corpo viveva; amputato, perde la vita. Così una persona è cristiana cattolica finché vive nel corpo; staccata da esso, diventa eretica e lo Spirito Santo non segue il membro amputato. Se dunque volete vivere dello Spirito Santo, conservate la carità, amate la verità, desiderate l’unità e raggiungerete l’eternità»8.
Questa famosa immagine dello Spirito Santo come anima della Chiesa ci aiuta a capire una cosa importante. Lo Spirito Santo non opera l’unità della Chiesa, per così dire, dall’esterno, come causa efficiente soltanto; non spinge soltanto all’unità, né si limita a comandare di essere uniti. No, egli «è» e «fa» l’unità. È lui stesso il «vincolo di unità», appunto come l’anima nel corpo. La frase tanto cara alla liturgia: «nell’unità dello Spirito Santo» significa «nell’unità che è lo Spirito Santo».
Questa lettura tradizionale del racconto di Pentecoste è fatta propria dal concilio Vaticano II, quando dice: «Nel giorno di Pentecoste lo Spirito Santo si effuse sui discepoli per rimanere con essi in eterno, e la Chiesa apparve ufficialmente di fronte alla moltitudine ed ebbe inizio, attraverso la predicazione, la diffusione del Vangelo in mezzo alle genti, e finalmente fu prefigurata l’unione dei popoli nell’universalità della fede attraverso la Chiesa della Nuova Alleanza, che in tutte le lingue si esprime e tutte le lingue nell’amore intende e comprende, superando così la dispersione babelica»9.
3. Pentecoste e Babele
Ma perché, tra i vari fenomeni che accompagnarono la venuta dello Spirito Santo sugli apostoli, Luca dà tanto risalto al fenomeno delle lingue? Qui non si tratta infatti solo del noto dono di parlare in lingue sconosciute durante un’assemblea di preghiera. Questo, infatti, doveva essere sempre seguito dall’interpretazione da parte di qualcuno (cf 1 Cor 14, 27 s), mentre qui non c’è bisogno di alcuna interpretazione perché il miracolo consiste proprio nel fatto che ognuno comprende immediatamente ciò che gli apostoli dicono, come se li avesse uditi parlare nella sua lingua.
La risposta costante della Tradizione, mantenuta anche oggi dalla maggioranza degli esegeti, è che Luca con ciò abbia voluto creare un tacito contrasto tra ciò che accadde nella costruzione della torre di Babele e ciò che si verifica ora, nella Pentecoste. San Cirillo di Gerusalemme, per esempio, scrive: «A Babele, con la confusione delle lingue vi fu anche la divisione delle volontà, trattandosi di un progetto contrario a Dio; adesso invece le disposizioni degli animi sono restituite all’unità affinché si muovano verso un fine di pietà»10. Sant’Agostino a sua volta dice: «Per colpa di uomini superbi furono divise le lingue; grazie agli umili apostoli le lingue sono state riunificate»11. Questa interpretazione comune sia all’oriente sia all’occidente cristiano è stata accolta nella liturgia che ha inserito l’episodio di Babele tra le letture della veglia di Pentecoste.
Ma che tipo di rapporto esiste propriamente tra i due fatti di Babele e di Pentecoste? Si tratta di un parallelismo antitetico, che contiene, cioè, un elemento di affinità e un elemento di contrasto. La Chiesa è la nuova Babele, esattamente come Cristo è il nuovo Adamo. L’elemento di affinità è che in entrambi i casi si tratta di un progetto di unità tra tutti i popoli, reso possibile e manifestato dall’unità della lingua. Là tutti i popoli della terra «avevano una sola lingua» (Gn 11, 1), qui ciascuno sentiva gli apostoli «parlare la propria lingua» (At 2, 6).
L’elemento di contrasto consiste nel tipo di unità che si persegue ed è un contrasto radicale. L’unità di Babele è un’unità umana, decisa dall’uomo e che ha per scopo la gloria dell’uomo: «Venite – essi dicono –, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gn 11, 4). «Facciamoci un nome!», non: «Facciamo un nome a Dio!». È un progetto di unità che nasce da volontà di potenza e di fama, cioè da superbia. A Pentecoste, al contrario, tutti comprendono la lingua degli apostoli, perché essi «annunciano, nelle varie lingue, le grandi opere di Dio» (At 2, 11). Non stanno elevando un monumento a se stessi, ma a Dio. Accentuando questo elemento di contrasto, si può giustamente dire che la Chiesa, più che la nuova Babele, è l’antibabele.
L’insegnamento biblico che scaturisce dall’accostamento tra Babele e Pentecoste è dunque che vi sono due tipi di unità possibili: un’unità secondo la carne e un’unità secondo lo Spirito. Ciò che fa la differenza è il centro. Si tratta cioè di sapere chi è al centro di una certa unità, intorno a chi essa è costruita: se intorno a Dio o intorno all’uomo.
Tutti vogliamo l’unità. Dopo la parola felicità, non ce n’è, forse, alcun’altra che risponda a un bisogno altrettanto impellente del cuore umano come la parola unità. Noi siamo «esseri finiti, capaci di infinito» e questo vuol dire che siamo creature limitate che aspiriamo a superare il nostro limite, per essere «in qualche modo tutto». Non ci rassegniamo a essere solo quello che siamo. È qualcosa che fa parte della struttura stessa del nostro essere.
San Tommaso d’Aquino spiega tutto ciò dicendo: «Poiché l’unità (unum) è un principio dell’essere come la bontà (bonum), ne deriva che ognuno desidera naturalmente l’unità, come desidera il bene. Per questo come l’amore o il desiderio del bene causa sofferenza, così fa anche l’amore o il desiderio dell’unità»13. Questo vale anzitutto per l’unità interna a ogni singola persona, ma vale anche per l’unità più grande con tutte le altre persone.
Sartre ha scritto che «l’inferno sono gli altri»14 e l’affermazione può essere intesa anche in un senso diverso da come l’intende il suo autore. Gli «altri», i diversi da me, sono quello che io non sono. E non tanto perché hanno qualcosa che io non ho, quanto perché sono qualcosa che io non sono. Semplicemente perché sono. Con il loro semplice esistere mi ricordano il mio limite, che io non sono il tutto. Essere un individuo particolare, distinto e diverso da tutti, significa, infatti, essere quello che si è e non essere tutto il resto che mi circonda. Essere se stessi comporta la terribile conseguenza di non essere altro che se stessi, cioè un piccolissimo istmo di terraferma, o addirittura una minuscola isoletta, circondata da tutte le parti dal grande mare del mio non-essere. Gli altri allora sono voragini di non-essere che mi si aprono minacciosamente tutt’intorno. Da qui a dire che gli altri sono il mio «inferno», in una visione puramente filosofica e per giunta atea, non c’è che un passo.
Il bisogno di unità è fame della pienezza dell’essere. Noi siamo fatti per l’unità, perché siamo fatti per la felicità. L’unità o la comunione con gli altri è infatti l’unico modo possibile per colmare quelle «voragini» che ci si aprono intorno. Al fondo non solo del matrimonio, in cui due persone si uniscono per formare una carne sola, ma, in modo diverso, anche nella ricerca dei beni materiali e della conoscenza, c’è un bisogno di unità. Un bisogno di annetterci più «territori stranieri» che possiamo.
Come realizzare concretamente questo bisogno di unità che c’è, più o meno avvertito, in ogni creatura razionale? È qui che le strade si dividono ed emergono due progetti di unità: l’unità di Babele e l’unità di Pentecoste, cioè l’unità secondo la carne e l’unità secondo lo Spirito. L’unità di Babele è quando ognuno vuole «farsi un nome», quando ognuno si pone al centro del mondo. Siccome noi siamo tanti e siamo diversi, per questa strada non potrà derivare che «confusione», come veniva appunto interpretato il nome stesso di Babele. Le parole, in questo caso, non fanno che dividere e si fa, anche concretamente, l’esperienza degli uomini di Babele che non si compresero più e si separarono.
Tutti vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore, eppure essa è tanto difficile da ottenere che, anche nei matrimoni più riusciti, i momenti di vera e totale unità – non solo della carne, ma anche dello spirito – sono assai rari e sono, appunto, solo dei momenti. Perché questo? In genere, è perché noi vogliamo, sì, che si faccia l’unità, ma… intorno al nostro punto di vista. Il guaio è che l’altro che mi sta davanti vuole la stessa cosa. Così l’unità non fa che allontanarsi.
Al contrario, l’unità di Pentecoste, o secondo lo Spirito, è quando si pone, o meglio si accetta, al centro Dio. Solo quando tutti tendono a questo «Uno», si avvicinano e si incontrano tra loro. Avviene come dei raggi di un cerchio, i quali, a mano a mano che procedono verso il centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a congiungersi e formare un unico punto.
San Tommaso d’Aquino chiama l’amore di Dio aggregativo e quello di sé disgregativo. Scrive: «L’amore di Dio è aggregante in quanto riporta il desiderio dell’uomo dalla molteplicità a un’unica cosa; l’amore di sé invece disperde (disgregat) il desiderio umano nella molteplicità delle cose. Infatti l’uomo ama se stesso desiderando per sé i beni temporali che sono molti e diversi»15. L’amore di Dio fa dunque unità non solo tra diverse persone tra di loro, ma anche all’interno di una stessa persona; un’unità interna, non solo esterna.
Passare da Babele a Pentecoste significa, per usare un’espressione di T. de Chardin, «decentrarci da noi stessi e ricentrarci su Dio».
Gli apostoli stessi sono la migliore dimostrazione di quanto siamo venuti dicendo. Prima della Pentecoste, quando erano alla ricerca ognuno di una sua affermazione o supremazia personale e a ogni occasione discutevano «chi tra loro fosse il più grande», non regnavano tra di essi se non malumori e contese (cf Mc 9, 34; 10, 41). Dopo la Pentecoste, quando la venuta dello Spirito ha spostato completamente l’asse dei loro pensieri da se stessi a Dio, ecco che li vediamo formare tra loro e con gli altri discepoli «un cuore solo e un’anima sola» (At 4, 32). Il linguaggio nuovo che essi hanno imparato e che tutti capiscono è il linguaggio dell’umiltà cristiana.
È questa unità dello Spirito che deve sorreggere e coronare tutte le altre unità anche naturali del credente: l’unità nel matrimonio, tra l’uomo e la donna, l’unità fraterna nella comunità. È questa unità che fa esclamare con il salmo: «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!» (Sal 133, 1).
Nello Spirito, cioè sul piano della grazia, possiamo finalmente realizzare quel bisogno che c’è in noi di essere, in qualche modo, il tutto, e non dei frammenti dispersi. Sì, nello Spirito e grazie allo Spirito, tutto l’universo è raccolto in un punto solo e io sono in quel punto, felice di nuotare nell’oceano infinito del tutto che è Dio. Gesù aveva pregato proprio per questo: «che siano tutti in noi una cosa sola» (cf Gv 17, 21) e ora, grazie allo Spirito, questa preghiera si è avverata. Tutti possiamo essere «una cosa sola». «Un solo corpo, un solo Spirito» (Ef 4, 4): grazie allo Spirito, noi formiamo un corpo solo; non siamo più dispersi e frammentari. «Siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12, 5). Gli altri non sono più delle voragini oscure che si aprono accanto a me, ma sono parte di me e io di loro. «Siamo un corpo solo!» (1 Cor 10, 17), ci unisce lo stesso Spirito.
Ecco come un Padre della Chiesa descrive l’unità tra noi e con Dio operata dallo Spirito: «Noi tutti, avendo ricevuto un unico e medesimo Spirito Santo, siamo, in certo qual modo, uniti sia tra noi, sia con Dio. Infatti, sebbene, presi separatamente, siamo in molti, e in ciascuno di noi Cristo faccia abitare lo Spirito del Padre e suo, tuttavia unico e indivisibile è lo Spirito. Egli con la sua presenza e la sua azione riunisce nell’unità spiriti che tra loro sono distinti e separati. Egli fa di tutti, in se stesso, un’unica e medesima cosa»16.
Non è vero dunque che gli altri sono il mio «inferno». Sono, in un certo senso, il mio paradiso, perché mi permettono di essere quello che, da solo, non potrei mai essere, a meno di diventare io stesso Dio. Non abbiamo più bisogno di guardarci con invidia e circospezione. Quello che io non ho e gli altri invece hanno è anche mio.
Tu senti l’Apostolo elencare tutti quei meravigliosi carismi e forse ti rattristi pensando di non averne nessuno. Ma, attento, ti ammonisce sant’Agostino: «Se tu ami, quello che possiedi non è poco. Se infatti tu ami l’unità, tutto quello che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che possiedi tu»17.
Il santo deduce ciò proprio dal fatto che siamo un corpo solo. Solo l’occhio nel corpo ha la capacità di vedere. Ma forse che l’occhio vede soltanto per se stesso? Non è tutto il corpo che beneficia della sua capacità di vedere? Solo la mano agisce, ma forse che essa agisce soltanto per se stessa? Se un sasso sta per colpire l’occhio, forse che la mano se ne resta tranquilla e inerte, dicendo che tanto il colpo non è diretto contro di essa? Lo stesso avviene nel corpo di Cristo: quello che ogni membro è e fa, lo è e lo fa per tutti!
Il segno stesso delle lingue a Pentecoste ci ricorda questo formidabile segreto. Anche qui, uno si potrebbe chiedere: Perché io ho ricevuto lo Spirito Santo e non parlo nessuna lingua, come invece parlarono gli apostoli? Sì che parli anche tu tutte le lingue, come gli apostoli. Fai parte dell’unico corpo di Cristo? Ami l’unità della Chiesa? Allora tu parli tutte le lingue, perché fai parte di quel corpo che parla tutte le lingue e in tutte le lingue annunzia «le grandi opere di Dio».
«Allora un unico credente parlava in tutte le lingue; ora l’insieme dei credenti parla in tutte le lingue. Perciò anche ora tutte le lingue sono nostre, poiché siamo membra del corpo che le parla… Come allora le diverse lingue che un unico uomo poteva parlare erano il segno della presenza dello Spirito Santo, così ora l’amore per l’unità di tutti i popoli è il segno della sua presenza»18. Non è, anche oggi, il parlare in lingue, la glossolalia, il segno più certo della presenza operante dello Spirito pentecostale in una comunità cristiana, ma è l’amore per l’unità, che è la carità (cf 1 Cor 12, 31).
4. Chi erano i costruttori di Babele
Oggi siamo forse in grado di scoprire, nell’accostamento tra Babele e Pentecoste, qualcosa di nuovo rispetto a ciò che vi hanno scorto i Padri della Chiesa. Ciò dipende dal fatto che la lettura «spirituale» della Bibbia cresce e si arricchisce con il progredire delle conoscenze storiche che abbiamo intorno alla Bibbia. Lo «Spirito» cresce con il crescere della «lettera», perché si fonda su di essa.
Noi sappiamo oggi qualcosa di più preciso intorno alla natura dell’impresa narrata in Genesi 11, rispetto a quello che ne potevano sapere i Padri, e questo permette di cogliere una nuova profondità nell’accostamento operato da Luca. Qual era la natura dell’impresa di Babele e chi erano i suoi costruttori secondo i Padri? Per essi si trattava di una costruzione elevata «contro il Signore», in segno di sfida e di superba alterigia. I suoi costruttori erano i «giganti», una specie di corrispettivo biblico del mito greco dei Titani che sfidano il cielo.
«Come dopo il diluvio – scrive sant’Agostino – i superbi ed empi uomini edificarono una torre elevata contro il Signore, per cui il genere umano meritò di essere diviso in diversi ceppi linguistici, cosicché ogni popolo parlava la propria lingua senza essere compreso dagli altri, così l’umile pietà dei fedeli riportò all’unità della Chiesa la diversità di quelle lingue»19. In questa luce, il contrasto Pentecoste-Babele coincide con quello tra credenti e non credenti, tra città di Dio e città di Satana. La parola di Dio colpisce gli atei, i bestemmiatori, coloro che si ribellano superbamente contro Dio.
Ora tutto ciò è verissimo, ma c’è anche dell’altro. Noi sappiamo oggi con relativa certezza, grazie al progresso delle conoscenze storiche e archeologiche, che il progetto di costruire una torre che si elevasse fino al cielo non era un progetto «contro» Dio, ma al contrario «per» Dio. Di fatti la loro intenzione era di costruire una di quelle torri a più ripiani (zikkurat), di cui si sono ritrovati diversi resti in Mesopotamia, che doveva servire come «un gigantesco edificio di culto»20. Più l’edificio era elevato, più si pensava di potersi assicurare i benefici della divinità.
Dov’era allora il «peccato» di Babele e perché Dio confuse le loro lingue? La risposta è contenuta nello stesso racconto biblico: quegli uomini si accinsero all’impresa dicendo: «Venite…, facciamoci un nome!» (Gn 11, 4). Non erano mossi da genuina pietà e riverenza verso la divinità, ma da una forte volontà di autoaffermazione; non dalla ricerca della gloria di Dio, ma della propria gloria e potenza. Dio vieniva, in tal modo, strumentalizzato. Costruire una torre, o un tempio, di insolite proporzioni significava proclamare la propria potenza e poter dialogare con la divinità, per così dire, da una posizione di parità, dicendogli tacitamente: «Vedi che cosa siamo stati capaci di fare per te? E tu cosa farai ora per noi?». Babele è un episodio dell’eterno tentativo dell’uomo di diventare creditore di Dio.
Se è così, il peccato degli uomini di Babele non è tanto il peccato degli atei, ma dei pii e dei religiosi, di quelli che conoscono Dio, ma non gli rendono gloria e grazie come a Dio si conviene. Il peccato punito da Dio in Genesi 11 è dello stesso tipo di quello denunciato da Paolo lungo tutta la sua Lettera ai Romani: il peccato di volersi salvare con le proprie forze, di giungere a Dio con le proprie opere, di «conquistare» Dio, facendo delle cose fatte per Dio – osservanza della legge, atti di culto e di giustizia – un’occasione di vanto.
Si capisce così in che consiste il rovesciamento che si opera nella Pentecoste, con la venuta dello Spirito Santo. Nel cuore degli apostoli Dio ha preso il posto dell’io, ha distrutto il vanto delle loro opere e dei loro progetti e li spinge a vantarsi solo di lui, non di sé. Ha visto giusto sant’Agostino quando dice che Babele è la città costruita sull’amore di sé, mentre Gerusalemme, cioè la Chiesa, o la città di Dio, è la città costruita sull’amore di Dio21. Il mistero dell’empietà è capovolto, la verità non è più tenuta «prigioniera dell’ingiustizia» (cf Rm 1, 21 ss); l’uomo non si mette più al posto di Dio, né si limita a conoscere Dio, ma gli rende anche gloria e grazie come a Dio si conviene.
Se vogliamo fare davvero l’ultimo passo, quello decisivo, verso la «verità», dobbiamo riconoscere umilmente che l’impresa di Babele è ancora in atto e che noi vi siamo tutti, chi più chi meno, coinvolti. Il passaggio da Babele a Pentecoste, avvenuto storicamente una volta per sempre, e narrato in Atti 2, deve compiersi, spiritualmente, ogni giorno, nella nostra vita. Bisogna passare continuamente da Babele a Pentecoste, come bisogna passare continuamente dall’uomo vecchio all’uomo nuovo.
Se il significato di Babele fosse soltanto quello messo in luce, a loro tempo, dai Padri, esso giudicherebbe, oggigiorno, solo i non-credenti, gli atei, o i propugnatori di una civiltà radicalmente secolare e titanica. Intesa invece in quest’altro modo, l’opposizione Babele-Pentecoste giudica anche noi, anche gli uomini pii e religiosi, anzi soprattutto essi. A chi somiglio io nel costruire la mia famiglia, la mia comunità, la Chiesa; a chi somiglia la mia attività di membro di un consiglio pastorale, di sacerdote, di uomo di cultura, di scrittore o di semplice cristiano: a quella dei costruttori di Babele, o a quella degli uomini di Pentecoste? È facile, in fondo, scoprirlo; basta rispondere alla domanda: per chi lo faccio? Qual è lo scopo ultimo, segreto, del mio operare? A chi cerco di fare un nome: a me stesso o a Dio?
Vi sono due soli grandi cantieri aperti nella storia e sta a noi scegliere in quale dei due lavorare. I due racconti di Genesi 11 e di Atti 2 ci dicono anche qual è il diverso risultato delle due imprese: da una parte la confusione e la dispersione, dall’altra la mirabile armonia dei cuori e delle voci; da una parte la rivalità, dall’altra l’unità.
San Paolo raccomanda di «conservare l’unità dello Spirito, mediante il vincolo della pace» (Ef 4, 3). L’unità dello Spirito è continuamente da ricreare e rinnovare, perché continuamente insidiata dalle forze «disgregatrici» dell’egoismo e dall’azione di colui che la Scrittura definisce «diavolo», diábolos, cioè colui che divide. Come l’unità è la prerogativa dello Spirito di Dio, così la divisione è la caratteristica dello spirito satanico.
E come fare per rinnovare l’unità ogni volta che è minacciata? San Paolo ce ne rivela il segreto: «mediante il vincolo della pace». Ristabilendo la pace, facendo la pace. Gesù sulla croce ristabilì l’unità – unità tra giudei e gentili, tra Dio e il mondo – facendo la pace e fece la pace distruggendo in se stesso l’inimicizia. Non distruggendo il nemico, ma distruggendo l’inimicizia, che è una cosa tutta diversa. È scritto:
«Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, distruggendo in se stesso l’inimicizia… Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2, 14-18).
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5 Ireneo, Contro le eresie, III, 17, 1.
6 L.cit.
7 Agostino, Discorsi, 269, 3-4 (PL 38, 1236 s).
8 Id., Discorsi, 267, 4 (PL 38, 1231).
9 Ad gentes, n. 4.
10 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XVII, 17 (PG 33, 989).
11 Agostino, Esposizioni sui Salmi, 54, 11 (CCL 39, p. 665).
13 Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-IIae, q. 26, a. 3.
14 J.-P. Sartre, Porte chiuse, V.
15 Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 73, a. 1, ad 3.
16 Cirillo Alessandrino, Commento a Giovanni, XI, 11 (PG 74, 560).
17 Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 32, 8 (PL 35, 1646).
18 Agostino, Discorsi, 269, 1.2 (PL 38, 1235 s.).
19 Agostino, Discorsi, 271, 1 (PL 38, 1245 s).
20 Cf G. von Rad, Genesi, Brescia 1978, p. 191.
21 Cf Agostino, La città di Dio, XIV, 28 (PL 42, 436).
22 Erma, Pastore, Vis. III, 10, 4 ss.
23 Leggenda dei tre compagni, 2 (FF 1420).