Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

Il mio sangue è vera bevanda - XX Domenica del Tempo Ordinario

Proverbi 9, 1-6; Efesini 5, 15-20; Giovanni 6, 51-59

Vediamo subito qual è, nel brano evangelico di questa domenica, il passo avanti rispetto al resto del discorso di Gesù sul pane di vita. (Ripensiamo all’immagine della spirale e della scala a chiocciola). Esso è contenuto in queste parole di Cristo:
“In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”.
L’elemento nuovo è che al discorso sul pane si aggiunge quello sul vino, all’immagine del cibo quella della bevanda, al dono della sua carne quello del suo sangue. Il simbolismo eucaristico raggiunge il suo culmine e la sua completezza.
Abbiamo insistito, la volta scorsa, sull’Eucaristia come pane di vita; è giusto che dedichiamo oggi la nostra attenzione al sangue di Cristo. Il fatto di ricevere solo l’ostia e non anche il calice, ha fatto sì che l’Eucaristia sia vista dalla gente quasi solo come il sacramento del corpo di Cristo, il “Corpus Domini”. Ma l’Eucaristia è, allo stesso titolo, il sacramento anche del sangue di Cristo. È un banchetto e, come in ogni banchetto, non si mangia soltanto, ma si mangia e si beve.
Perché Gesù ha voluto darci non solo il suo corpo, ma anche il suo sangue nel segno del vino? Cosa rappresenta il sangue? Per noi, oggi, il sangue non è che un organo del nostro corpo, accanto ad altri. Ma nella mentalità della Bibbia è ben altro. Il sangue era considerato la sede della vita. Per questo gli ebrei, anche oggi, non possono mangiare le carni di animali soffocati, cioè che hanno il sangue dentro. Perché mangiare il sangue sarebbe come mangiare la vita che è sacra e appartiene solo a Dio. Se dunque il sangue è la sede della vita, allora il versamento del sangue è il segno plastico della morte. Donandoci il suo sangue, Gesù ci dona la sua morte con tutto ciò che essa ci ha procurato: la remissione dei peccati, il dono dello Spirito. Dire che l’Eucaristia è il sacramento “del corpo e del sangue del Signore”, significa dire che è il sacramento della sua vita e della sua morte. Noi sappiamo cosa significa dire a qualcuno: “Mi costi il sangue!”.
Di nuovo, l’Eucaristia rivela la sua straordinaria vicinanza a tutta quanta l’esistenza umana, sacra e profana. Il sangue di Cristo infatti non è il solo che è stato versato sulla terra. Sangue è una parola che rosseggia ogni giorno sulle pagine dei nostri giornali e ora anche visibilmente nelle immagini che la televisione ci trasmette dai campi di battaglia, dalle guerriglie, dagli attentati, dagli incidenti stradali. La Bibbia dice che “il sangue di Abele grida a Dio dalla terra” (cfr. Genesi 4, 10). Questo grido si è accresciuto nei secoli, fino a diventare un coro, o un urlo, immenso. Il sangue è il simbolo più forte di tutto il dolore che c’è sulla terra. Se dunque nel segno del pane arriva sull’altare il lavoro dell’uomo, nel segno del vino e del sangue vi giunge tutta la sua sofferenza. Vi arriva per essere riscattata, illuminata dalla speranza e dal perdono.
Mi piace, in questa occasione, dedicare un pensiero particolare ai donatori di sangue e a tutti coloro che operano in questo settore. Che splendido modo di imitare l’Eucaristia! Nessun gesto richiama più da vicino quello di Cristo che offrire il proprio braccio perché un altro possa continuare a vivere. Il donatore di sangue potrebbe fare sue le parole di Cristo e dire: “Prendete, questo è il mio sangue donato per voi”. Altre persone da ricordare, in questo contesto, sono i donatori di organi. Anche questo, che gesto eucaristico! Di Gesù, si dice che “morendo ha dato la vita al mondo”. Anche di queste persone si può dire qualcosa di simile: morendo, essi permettono a un altro di vivere. Tra l’altro, sappiamo quanto c’è ancora da fare per incoraggiare la gente ad aprirsi a questo gesto altamente umano e cristiano della donazione di organi, in occasione del decesso improvviso di qualche persona cara, quando le circostanze lo permettono.
Ma il discorso sul sangue non finisce qui. Perché Gesù ha voluto nascondere il suo sangue proprio nel segno del vino? Solo per l’affinità del colore? Abbiamo visto, parlando del pane, che nell’Eucaristia è essenziale partire dal significato dei segni, perché è esso che viene elevato e consacrato. Ora che cosa rappresenta il vino per gli uomini? Rappresenta la gioia, la festa; non rappresenta tanto l’utile (come il pane) quanto il dilettevole. Non è fatto solo per bere, ma anche per brindare. Gesù moltiplica i pani per la necessità della gente, ma a Cana moltiplica il vino per la gioia dei commensali. La Scrittura dice che “il vino allieta il cuore dell’uomo e il pane sostiene il suo vigore” (Salmo 104, 15). “Il vino rappresenta, nella vita, la poesia e il colore; è come la danza rispetto al semplice camminare, o il giocare rispetto al lavorare” (L. Alonso Schökel).
Se Gesù avesse scelto, per l’Eucaristia, pane e acqua, avrebbe indicato solo la santificazione della sofferenza (“pane e acqua” sono infatti sinonimo di digiuno, di austerità e di penitenza). Scegliendo pane e vino, ha voluto indicare anche la santificazione della gioia. Il vino nuovo, lungo tutta la Bibbia, è infatti simbolo del banchetto messianico.
Ma come è possibile che lo stesso segno rappresenti, in quanto sangue, la sofferenza e, in quanto vino, la gioia? Non si escludono a vicenda queste due cose? No, se pensiamo al sacrificio fatto per amore, come fu quello di Cristo. Il vino, che la Bibbia chiama spesso “il sangue dell’uva”, ricorda il misterioso rapporto che esiste, nell’esperienza umana, tra amore e sacrificio. “Non si vive in amore senza dolore”, dice la Imitazione di Cristo. Quanti sacrifici comporta, per dei giovani sposi, l’arrivo del primo bambino, ma anche quanta gioia! Il vino eucaristico rappresenta la gioia del sacrificio!
L’Eucaristia rivela così, ancora una volta, la sua straordinaria presa sulla vita. La costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, del Vaticano II inizia dicendo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Nulla vi è – possiamo aggiungere – che non trovi un’eco nell’Eucaristia. In essa viene raccolto e offerto a Dio, nello stesso tempo, tutto il dolore e tutta la gioia dell’umanità.
Se dovessi scegliere su quale di queste due cose insistere di più, non esiterei a dire: sulla gioia. Chissà perché, noi uomini troviamo naturalissimo rivolgerci a Dio nel dolore; molti anzi non si rivolgono a Dio se non quando sono visitati da qualche disgrazia e hanno bisogno di lui. Le gioie invece preferiamo godercele da soli, di nascosto, quasi all’insaputa di Dio. (Dovesse venirgli in mente che ormai abbiamo avuto la nostra parte di felicità e siamo pronti per tornare al dolore!). Quando riceviamo qualche gioia nella vita ci comportiamo, a volte, come il cane che ha ricevuto un osso dal suo padrone e subito gli volta le spalle e va a goderselo in disparte, per paura che glielo portino via.
Eppure come sarebbe bello se imparassimo a vivere anche le gioie della vita, eucaristicamente, cioè con rendimento di grazie a Dio. La presenza e lo sguardo di Dio non offuscano le nostre gioie oneste, al contrario le amplificano. Con lui, le piccole gioie diventano un incentivo ad aspirare alla gioia intramontabile che egli tiene preparata per i suoi. Un giorno, un santo orientale, san Simeone il Nuovo Teologo, sperimentò una gioia così forte, da credere di aver raggiunto l’apice ed esclamò: “Se il paradiso non è che questo, mi basta!”. Una voce però gli disse: “Sei ben meschino se ti accontenti di questo. La tua gioia presente, rispetto a quella futura, è come un cielo dipinto sulla carta, rispetto al cielo vero”.
Tutto questo ci ricorda, nell’Eucaristia, il segno del vino che diventa sangue di Cristo. Come dovremmo essere devoti e amanti del sangue di Cristo! Ogni volta che è possibile, bisognerebbe accostarsi con gioia e riconoscenza alla comunione sotto le due specie. Questo è consentito dopo il concilio in diverse circostanze: ai bambini nella prima comunione, agli sposi il giorno delle nozze e nell’anniversario di matrimonio, durante i ritiri, quando si partecipa a una Messa particolare in cui alcuni possono accedere alla comunione anche nel sangue di Cristo. Personalmente, mi auguro che queste occasioni divengano ancora più frequenti.
Ma anche quando non possiamo riceverlo noi stessi, possiamo sempre contemplare e adorare il sangue di Cristo presente sull’altare, specie al momento dell’elevazione del calice. Non dimentichiamo, del resto, che, secondo la dottrina cattolica, ricevendo il corpo di Cristo, riceviamo anche il suo sangue. Nell’ostia infatti è presente “il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo”. La Scrittura dice:
“Il sangue di Cristo… purifica la nostra coscienza dalle opere di morte” (Ebrei 9, 14).
Esso è l’unico “solvente” capace di sciogliere ogni concrezione di male e grumo di peccato, in noi e fuori di noi. Ho già spiegato una volta perché il pellicano è diventato simbolo dell’Eucaristia: perché si credeva che questo uccello, quando non ha più nulla da dare ai suoi piccoli, si apre con il becco una ferita nel costato e li nutre con il suo sangue. Da qui la bella preghiera dell’Adoro te devote che vogliamo recitare insieme a conclusione della nostra riflessione:
“Pio Pellicano, Signore Gesù, / me, immondo, monda col tuo sangue: / di esso una sola stilla / tutto il mondo può / salvare dalla colpa”.