Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

Partito di là, andò nella sua patria - XIV Domenica del Tempo Ordinario

Ezechiele 2, 2-5; 2 Corinzi 12, 7-10; Marco 6, 1-6

Quando ormai era diventato popolare e famoso per i suoi miracoli e il suo insegnamento, Gesù tornò, un giorno, al suo villaggio di origine, Nazaret, e, come al solito, si mise a insegnare nella sinagoga. Ma questa volta, niente entusiasmi, nessun “osanna!”. Anziché ascoltare quello che diceva e giudicarlo in base ad esso, la gente si mise a fare delle considerazioni estranee: “Dove ha attinto questa sapienza? Lui non ha studiato. Lo conosciamo bene; è il carpentiere, il figlio Maria!”. “E si scandalizzavano di lui”, cioè trovavano un ostacolo a credergli nel fatto che lo conoscevano bene. Gesù commentò amaramente:
“Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
Questa frase è divenuta proverbiale nella forma abbreviata: Nemo propheta in patria, nessuno è profeta nella sua patria. Ma non ci fermiamo su questo. Il Vangelo odierno ha ben altro da dirci sul piano della fede. Lo possiamo riassumere così: Attenti a non commettere lo stesso errore dei nazaretani! In un certo senso, Gesù torna nella sua patria, ogni volta che il suo Vangelo viene annunciato nei paesi che furono, un tempo, la culla del cristianesimo.
Marco dice sinteticamente che, arrivato a Nazaret in giorno di sabato, Gesù “incominciò a insegnare nella sinagoga”. Ma il Vangelo di Luca specifica anche cosa insegnò, cosa disse nella sinagoga, quel sabato:
“Lo Spirito del Signore è su di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore” (Luca 4, 18-19).
Tutte le cose che Gesù elenca costituiscono i contenuti del giubileo. Secondo la legge mosaica, ogni 50 anni doveva esserci un anno speciale, annunciato dal suono di un corno detto jobel, e perciò chiamato jubilaeum, giubileo. In esso la terra doveva tornare in possesso del suo antico proprietario, gli schiavi rimessi in libertà, i debiti condonati. Un anno, insomma, di grazia, di riconciliazione e di generale condono.
Quello che Gesù proclamò nella sinagoga di Nazaret era dunque il primo giubileo cristiano della storia, il primo grande “anno di grazia”, di cui tutti i giubilei e gli “anni santi” non sono che una commemorazione. Quante persone sperimentarono i frutti di questo “anno di grazia”, nel ministero di Gesù! Quanta vita, quanta gioia nuova per i villaggi della Galilea! E i nazaretani, ai quali Gesù aveva offerto per primi tutto ciò, esclusi da se stessi dal grande banchetto messianico. Essi rifiutarono la grazia del giubileo!
Sarebbe tragico se commettessimo lo stesso errore. La nostra Italia, e in genere l’Europa, sono, per il cristianesimo, quello che era Nazaret per Gesù: “il luogo dove è stato allevato”. (Il cristianesimo è nato in Asia, ma è cresciuto in Europa, un po’ come Gesù era nato a Betlemme, ma fu allevato a Nazaret!). Esse corrono oggi lo stesso rischio dei nazaretani: non riconoscere Gesù.
Nel lanciare il programma del primo anno di preparazione immediata al giubileo del Duemila: (“Gesù Cristo unico salvatore, ieri, oggi e sempre”), furono raccolti i commenti su di esso di diverse persone. Uno di quelli che vivono senza fissa dimora e dormono sulle panchine delle grandi città, un “barbone” insomma, diede una risposta semplicissima, che però, detta da lui, acquista particolare significato: “Gesù Cristo? Credo che sia l’unico che può salvare qualcuno!”.
È giusto, tuttavia, che affrontiamo una volta la questione: perché noi cristiani affermiamo che Gesù è l’unico salvatore? Su che cosa basiamo un’affermazione tanto ardita? La risposta è questa. Gesù Cristo, secondo la nostra fede, è Dio e uomo insieme. Come uomo, ci rappresenta; quello che fa ci appartiene, ci riguarda, è un bene di famiglia, a cui ogni membro della casa può accedere; come Dio, quello che fa ha un valore infinito e perciò può salvare non solo gli uomini di una generazione o di una cultura, ma tutti gli uomini di tutti i tempi. “C’è qualcosa di impossibile, o di troppo grande, per Dio?”.
Se mi seguite un istante, facciamo una lezione di alta teologia, comprensibile però anche alla persona più semplice. Dopo il peccato di Adamo, la situazione era questa. L’uomo doveva lottare e vincere Satana a cui si era sottomesso, ma non poteva farlo. (Come liberarsi di qualcuno, mentre si è ancora schiavi di lui e in suo potere?). Al contrario, Dio poteva vincere, ma non doveva lottare, perché non era lui che aveva peccato. Si era a un vicolo cieco e il peccato dominava e trascinava l’umanità in rovina. Uno doveva lottare, ma non poteva vincere; l’altro poteva vincere, ma non doveva lottare. Con Cristo si esce da questa situazione di stallo. In lui, vero Dio e vero uomo, colui che doveva lottare e vincere il nemico, si incontra con colui che solo poteva farlo. Ed è così che la salvezza è venuta nel mondo. Si capisce la gioia e l’entusiasmo dell’Apostolo che, rievocando queste cose, esclama: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Romani 8, 1). Siamo redenti, salvati, perdonati, fatti nuove creature! Dio proclama il suo grande giubileo, il condono di tutti i debiti, il ritorno dello schiavo alla casa del Padre, non più schiavo ma figlio!
C’è però da capire una cosa fondamentale. Tutto questo, Cristo lo ha fatto “per me”, singolarmente per me, per degli uomini concreti, non genericamente per l’umanità. Gesù non è solo l’unico salvatore del mondo; è il mio salvatore personale. È morto per me. E tutto intero per me. Quando si arriva a essere veramente convinti di questo, la vita cambia, si accende una grande luce, nasce una confidenza inaudita, un coraggio nuovo e incrollabile. La religione cambia aspetto, non è più la cosa “dei preti”, ma un fatto intimo e personale. Gesù vuole realizzare, in ogni persona che lo accoglie, quelle cose che predicò nella sinagoga di Nazaret: proclamargli la sua buona novella, sanare il suo cuore se è affranto, ridargli la vista, liberarlo da ogni prigionia.
Ci sono due modi di vivere il giubileo e ogni occasione di grazia. C’è un modo esteriore, e c’è un modo interiore, del cuore. Quello esteriore consiste in grandi celebrazioni, grandi iniziative religiose e festeggiamenti civili. Quello interiore consiste nel fare l’esperienza di tutte quelle cose elencate da Gesù e che si riassumono in una parola: “un anno di grazia”. La celebrazione esterna deve servire a quella interiore, del cuore; se no, è tempo e denaro sprecato. A Dio non interessa rinnovare le strade (per questo basta il ministero dei lavori pubblici), ma i cuori.
Dobbiamo dunque dare un seguito al giubileo del Duemila in modo che esso resti un avvenimento di grazia per noi, un’occasione irripetibile per scoprire Gesù come nostro personale Signore e Salvatore. Come “mio”, come qualcosa che mi appartiene, che io possiedo e da cui sono posseduto. Dio ripete ancora una volta agli uomini, ciò che disse quando inviò per la prima volta Cristo sulla terra:
“Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2 Corinzi 6, 2).
Ci resta una breve considerazione ancora da fare. Perché tutto questo si realizzi per noi, bisogna che anche noi facciamo un passo verso Dio. L’episodio evangelico ci insegna una cosa importante. Gesù ci lascia liberi; propone, non impone i suoi doni. Quel giorno, davanti al rifiuto dei suoi compaesani, Gesù non si abbandonò a minacce e invettive. Non disse sdegnato, come si racconta che Publio Scipione l’Africano disse lasciando Roma: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa!”. Semplicemente se ne andò altrove. Una volta che non era stato accolto in un altro posto e i discepoli indignati gli proponevano di far scendere fuoco dal cielo sulla quella città, Gesù si voltò e li rimproverò (cfr. Luca 9, 54).
Così fa anche oggi. “Dio è timido”. Ha molto più rispetto della nostra libertà di quanta ne abbiamo noi stessi gli uni di quella degli altri. Questo crea una grande responsabilità. Sant’Agostino diceva: “Ho paura di Gesù che passa” (Timeo Jesum transeuntem). Potrebbe infatti passare senza che io me ne accorga, passare senza che io sia pronto ad accoglierlo. Come successe ai nazaretani quel giorno.