Slide 15 Slide 2 Foto di Filippo Maria Gianfelice

Rallegratevi, il Signore è vicino - III Domenica di Avvento

Isaia 35, 1-6a.8a.10; Giacomo 5, 7-10; Matteo 11, 2-11

“Rallegratevi sempre nel Signore
ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Filippesi 4, 4-5).

Sono le prime parole con cui la liturgia accoglie oggi quelli che vanno a Messa. Da esse la presente Domenica prende il nome di Domenica “della gioia” (Gaudete). Anche il colore liturgico in questa Domenica può essere diverso: non l’austero violaceo, ma il rosa.
La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, è tutt’un inno alla gioia:

“Si rallegrino il deserto e la terra arida…
Si canti con gioia e con giubilo…
Felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto”

Questa è dunque l’occasione propizia per parlare di una cosa che credenti e non credenti hanno in comune, il desiderio di essere felici. Tutti vogliono essere felici. Al solo sentire nominare la felicità, le persone, per così dire, si drizzano e ti guardano nelle mani per vedere se, per caso, tu sia in grado di offrire qualcosa alla loro sete. È ciò che accomuna buoni e cattivi. Nessuno infatti sarebbe cattivo se non sperasse di potere ottenere da ciò un po’ di felicità.
Se potessimo rappresentarci visivamente l’intera umanità, nel suo movimento più profondo, vedremmo una folla immensa intorno a un albero da frutto, ergersi sulla punta dei piedi e protendere disperatamente le mani, nello sforzo di cogliere un frutto che però sfugge a ogni presa. La felicità, ha detto Dante, è

“quel dolce pomo che per tanti rami
cercando va la cura dei mortali”.

La ricerca della felicità (“the pursuit of happiness”) è inserita nella costituzione americana come uno dei diritti fondamentali dell’uomo. Ma allora, perché così pochi sono veramente felici e anche quelli che lo sono lo sono per così poco tempo? Io credo che la ragione principale è che, nella scalata alla felicità, sbagliamo versante, scegliamo un versante che non porta alla vetta.
Non è difficile scoprire dove si annida l’errore. La rivelazione dice: “Dio è amore”; l’uomo ha creduto di poter rovesciare la frase e dire: “L’amore è Dio!” (Questa affermazione è di Feuerbach). Ancora, la rivelazione dice: “Dio è felicità”; l’uomo inverte di nuovo l’ordine e dice: “La felicità è Dio!”
Ma cosa avviene in questo modo? Noi non conosciamo in terra la felicità allo stato puro, assoluta, come non conosciamo l’amore assoluto; conosciamo solo frammenti di felicità, che si riducono spesso a ebbrezze passeggere dei sensi: gioie di vetro che abbagliano per un istante, ma recano in sé l’angoscia di poter andare in frantumi da un momento all’altro. Quando perciò diciamo: “La felicità è Dio!”, noi divinizziamo le nostre piccole esperienze; chiamiamo “Dio” l’opera delle nostre mani, o della nostra mente. Facciamo, della felicità, un idolo.
Di questo tipo è la gioia cantata da Beethoven, nel finale della Nona Sinfonia, proposto come inno ufficiale dell’Europa unita!. La gioia vi è definita “scintilla degli dei, figlia dell’Elisio”. Una gioia che non basta per tutti e che perciò è riservata – si dice in quell’inno- solo “a chi ha avuto in sorte una buona moglie o beve in compagnia degli amici”. “Gioia, gioia!” (Freude, Freude!) è un grido di desiderio che resta senza risposta. Beethoven stesso che lo compose fu uno degli uomini più infelici mai esistiti.
Questo spiega perché chi cerca Dio trova sempre la gioia, mentre chi cerca la gioia non sempre trova Dio. Chi cerca la felicità prima che Dio e fuori di Dio non troverà che un suo vano simulacro, una “balia asciutta”, “cisterne screpolate che non contengono acqua” (Geremia 2, 13). L’uomo si riduce a cercare la felicità per via di quantità: inseguendo piaceri ed emozioni via via più intensi, o aggiungendo piacere a piacere. Come il drogato che ha bisogno di dosi sempre maggiori, per ottenere lo stesso grado di piacere.
Solo Dio è felice e fa felici. Per questo un salmo ci esorta:

“Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Salmo37, 4).

Con lui anche le gioie della vita presente conservano il loro dolce sapore e non si trasformano in angosce. Non solo le gioie spirituali, ma ogni gioia umana onesta: la gioia di veder crescere i propri figli, del lavoro felicemente portato a termine, dell’amicizia, della salute ritrovata, della creatività, dell’arte, della distensione a contatto con la natura. Solo Dio ha potuto strappare dalle labbra di un santo il grido: “Basta, Signore, con la gioia; il mio cuore non può contenerne più!”.
In Dio si trova tutto quello che l’uomo è solito associare alla parola felicità e infinitamente di più, poiché “occhio non vide, orecchio non udì, né mai salì in cuore di uomo quello che Dio tiene preparato per coloro che lo amano” (cfr. 1 Corinzi 2,9). Il traguardo finale che la fede cristiana addita all’uomo non è la semplice cessazione del dolore, lo spegnimento dei desideri, come in altre religioni. È infinitamente di più: è l’appagamento di tutti i desideri. La Bibbia descrive la vita eterna con le immagini della festa, del banchetto nuziale, del canto e della danza. Entrare in essa è fare l’ingresso definitivo nella gioia: “Entra nel gaudio del tuo Signore!” (Matteo 25,21).
È ora di cominciare a proclamare con più coraggio il “lieto messaggio” che Dio è felicità, che la felicità -non la sofferenza, la privazione, la croce- avrà l’ultima parola. Che la sofferenza serve solo a rimuovere l’ostacolo alla gioia, a dilatare l’anima, perché un giorno possa accoglierne la misura più grande possibile.

“Ai poveri è annunciato un lieto messaggio”.

Sono parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di questa domenica, dove “lieto messaggio” traduce la parola “vangelo”. Il Vangelo è annuncio di gioia! L’umanità ha finito per convincersi di dover scegliere tra Dio e la felicità. Abbiamo fatto inconsapevolmente di Dio il rivale, il nemico della gioia dell’uomo. Un Dio “invidioso”, come quello di certi scrittori pagani. Ma questa è l’opera per eccellenza di Satana, l’arma che usò con successo con Eva.
Però la gioia è come l’acqua corrente: bisogna darne per riceverne. “Fateci vedere la vostra gioia!”, dicevano agli ebrei, in tono di sfida, coloro che li avevano deportato (Isaia 66, 5). Anche ai cristiani, i non credenti rivolgono tacitamente la stessa sfida: “Fateci vedere la vostra gioia!”
Come testimoniare la gioia? San Paolo, dopo aver esortato i cristiani a “rallegrasi sempre”, aggiunge subito:

“La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”

La parola “affabilità” indica qui tutto un complesso di atteggiamenti fatto di indulgenza, di bontà d’animo, di capacità di saper cedere. I credenti testimoniano la gioia quando evitano ogni acredine e puntiglio personale, quando sanno irradiare fiducia. Chi è felice non è amaro e pignolo, non sente il bisogno di stare a puntualizzare su tutto e sempre, sa relativizzare le cose, perché conosce qualcosa che è troppo più grande.
A tutti noi è diretta l’esortazione che un profeta rivolse al popolo ebraico in un momento di grande afflizione:

“Non piangete, non fate lutto: la gioia del Signore è la nostra forza” (Neemia 8).